Un saggio dell'archeologo Andrea Carandini svela i misteri di Giunio Bruto, che cambiò le sorti dell'Urbe (e del mondo) cacciando Tarquinio il Superbo
di Ezio Savino
Oggi è il Parco della Musica, l’Auditorium di Renzo Piano, incastonato tra il Villaggio Olimpico e Villa Glori, nell’ansa del Tevere. Ma all’alba di Roma repubblicana, nel VI sec. a. C, qui risuonavano i campanacci del gregge. In primavera, si sentivano le risate e i canti di chi bisbocciava nel vicino bosco sacro di Anna Perenna (piazza Euclide), dea della stagione buona e delle tavolate. Il contadino dissodava il podere, zuppo delle inondazioni del fiume.
Ma poi un ricco terriero sloggiò la fattoria, e vi costruì sopra la sua villa, con annessi il frantoio e il quartierino dei servi lavoranti. Costoro erano forse la famiglia del vecchio paesano, costretto a svendere sotto i faenora, i mutui, i debiti di allora, gravati dall’usura, e a faticare sotto padrone. Le ruspe di Piano a inizio lavori smossero i ruderi di quelle fondamenta. Ci fu l’altolà della Sovrintendenza. Le sue sale da concerto cambiarono dislocazione rispetto al disegno. In compenso, un po’ di luce si è accesa su una fase nebbiosa della storia romana. Ce le racconta Andrea Carandini, archeologo e storico (in questo caso, l’integrazione tra le due competenze è indispensabile) in Res Publica (Rizzoli, pagg. 190, 18,90 euro). Siamo a cavallo tra VI e V sec. a. C., negli anni cruciali del transito dalla monarchia dei sette re, alla repubblica dei consoli, dei comizi popolari e dei magistrati.
Per il moderno esploratore del tempo, il problema è la scarsità delle fonti credibili su quegli eventi forti. Leggende e propaganda, a pioggia: ma i dati scientifici latitano, e una scoperta come quella del sottosuolo arcaico dell’Auditorium è oro colato. A patto di saperla armonizzare con il poco che galleggia sulle tradizioni, esercitando una critica temperata, che eviti gli eccessi di chi dà credito ai miti, ma anche di chi radicalizza, e insieme all’acqua sporca delle favole antiche getta dalla finestra il bambino, il nucleo della storia, lasciando il vuoto, il punto interrogativo.
Il metodo di Carandini è l’equilibrio, e il risultato è la ricostruzione plausibile di un’epoca. Ma non solo. Quella fu l’ora pesante delle trasformazioni traumatiche. La monarchia si spense, e sorse la «cosa pubblica», incunabolo di quel sistema di vita e civiltà che noi ora celebriamo, e di cui siamo debitori a quei capiscuola. Furono eventi politici su larga scala, officina dei nostri concetti di democrazia e libertà, di poteri divisi e indipendenti, di apparati dello stato, realtà che proprio in quei momenti si modellavano con un affaticato rodaggio, alle radici dell’Europa. Così il libro di Carandini, che nasce come storico e archeologico, culmina nell’ampiezza di pensiero e di dottrina del manuale politico. L'idea di fondo è correttissima.
La “democrazia”, il potere del popolo, nasce greca: ma nella sua stessa culla, Atene, sfolgorò per tre generazioni scarse. L’esperimento repubblicano più monumentale, il libro di testo su cui si formano tutti gli ordinamenti garantisti e costituzionali, la bibbia dei politologi dell’Illuminismo e dei rivoluzionari di Francia, dobbiamo andarli a cercare sui colli in riva al Tevere: oltre sei secoli di miktè politèia, come la chiamava il Kissinger dell’antichità, il greco Polibio, una «costituzione mista», che ponderava e bilanciava i poteri, e che può insegnarci ancora qualcosa su temi al calor bianco, da prima pagina, quali i rapporti tra magistratura e governo, i conflitti d’interesse, i ruoli e i confini invalicabili delle varie istituzioni.
Non c’è aridità teorica in queste pagine di Carandini, che hanno fervore e stile di narrazione. È un dramma di padri fondatori, di eroi. Spicca nel gruppo Marco Giunio, più noto con il soprannome di Bruto, «idiota».
Tale si finse, per sopravvivere, ragazzo, alla corte di Tarquinio il Superbo, l’ultimo monarca. Da infiltrato, acquisì dimestichezza con gli arcani del trono e, al momento giusto, scatenò l’inferno contro il despota, scacciandolo dal palazzo romano, e assumendo l’autorità di primo console della storia (509 a.C.). L’occasione fu scandalosa, lo stupro di una casta matrona, Lucrezia, figlia e sposa di nobili. Sesto era il figlio vanesio di Tarquinio, il re dispotico. Si considerava l’erede, e si concedeva ogni bravata. L’ultima gli fu fatale. Per scommessa, violentò Lucrezia, che davanti ai suoi uomini si pugnalò per l’onta. Invenzione edificante, o cronaca nera attendibile?
Carandini propende per la storicità. Non esistono prove forensi, ma il quadro è solido. Qui non c’è solo la vigliaccata di un ragazzotto della Roma bene. Si scontrano due mondi, due stili. Tarquinio e la sua corte da sultano sono il passato, imbevuto di rilassatezza, amoralità e lusso esagerato, etrusco. Gli altri sono il seme di Roma a venire, gente per cui l’onore e i mores, la dignità di un vivere sobrio, contano più dell’oro. I ribaltoni di quella portata hanno sempre un duro costo. Qui - spiega Carandini - fu il braccio di ferro tra la nuova classe dirigente, i patres, i patrizi, e la plebe.
Il punto dolente erano i debiti. Chi aveva un poderetto e diventava insolvente, lo perdeva, diventava proletario e servo arrabbiato. Qui si inserisce il tassello archeologico della storia. Le fondamenta dell’Auditorium diventano un film: prima la piccola azienda agricola, poi l’esproprio, il trionfo del palazzinaro. La costituzione mista fu l’antidoto al caos politico. La plebe negoziò con la controparte i suoi tribuni, difensori politici che potevano mettere sotto scacco i provvedimenti impopolari. La repubblica resse per secoli, prima di snaturarsi in impero, dagli ordinamenti legali al carisma di uno solo. Così funziona il pendolo della storia.
Ma poi un ricco terriero sloggiò la fattoria, e vi costruì sopra la sua villa, con annessi il frantoio e il quartierino dei servi lavoranti. Costoro erano forse la famiglia del vecchio paesano, costretto a svendere sotto i faenora, i mutui, i debiti di allora, gravati dall’usura, e a faticare sotto padrone. Le ruspe di Piano a inizio lavori smossero i ruderi di quelle fondamenta. Ci fu l’altolà della Sovrintendenza. Le sue sale da concerto cambiarono dislocazione rispetto al disegno. In compenso, un po’ di luce si è accesa su una fase nebbiosa della storia romana. Ce le racconta Andrea Carandini, archeologo e storico (in questo caso, l’integrazione tra le due competenze è indispensabile) in Res Publica (Rizzoli, pagg. 190, 18,90 euro). Siamo a cavallo tra VI e V sec. a. C., negli anni cruciali del transito dalla monarchia dei sette re, alla repubblica dei consoli, dei comizi popolari e dei magistrati.
Per il moderno esploratore del tempo, il problema è la scarsità delle fonti credibili su quegli eventi forti. Leggende e propaganda, a pioggia: ma i dati scientifici latitano, e una scoperta come quella del sottosuolo arcaico dell’Auditorium è oro colato. A patto di saperla armonizzare con il poco che galleggia sulle tradizioni, esercitando una critica temperata, che eviti gli eccessi di chi dà credito ai miti, ma anche di chi radicalizza, e insieme all’acqua sporca delle favole antiche getta dalla finestra il bambino, il nucleo della storia, lasciando il vuoto, il punto interrogativo.
Il metodo di Carandini è l’equilibrio, e il risultato è la ricostruzione plausibile di un’epoca. Ma non solo. Quella fu l’ora pesante delle trasformazioni traumatiche. La monarchia si spense, e sorse la «cosa pubblica», incunabolo di quel sistema di vita e civiltà che noi ora celebriamo, e di cui siamo debitori a quei capiscuola. Furono eventi politici su larga scala, officina dei nostri concetti di democrazia e libertà, di poteri divisi e indipendenti, di apparati dello stato, realtà che proprio in quei momenti si modellavano con un affaticato rodaggio, alle radici dell’Europa. Così il libro di Carandini, che nasce come storico e archeologico, culmina nell’ampiezza di pensiero e di dottrina del manuale politico. L'idea di fondo è correttissima.
La “democrazia”, il potere del popolo, nasce greca: ma nella sua stessa culla, Atene, sfolgorò per tre generazioni scarse. L’esperimento repubblicano più monumentale, il libro di testo su cui si formano tutti gli ordinamenti garantisti e costituzionali, la bibbia dei politologi dell’Illuminismo e dei rivoluzionari di Francia, dobbiamo andarli a cercare sui colli in riva al Tevere: oltre sei secoli di miktè politèia, come la chiamava il Kissinger dell’antichità, il greco Polibio, una «costituzione mista», che ponderava e bilanciava i poteri, e che può insegnarci ancora qualcosa su temi al calor bianco, da prima pagina, quali i rapporti tra magistratura e governo, i conflitti d’interesse, i ruoli e i confini invalicabili delle varie istituzioni.
Non c’è aridità teorica in queste pagine di Carandini, che hanno fervore e stile di narrazione. È un dramma di padri fondatori, di eroi. Spicca nel gruppo Marco Giunio, più noto con il soprannome di Bruto, «idiota».
Tale si finse, per sopravvivere, ragazzo, alla corte di Tarquinio il Superbo, l’ultimo monarca. Da infiltrato, acquisì dimestichezza con gli arcani del trono e, al momento giusto, scatenò l’inferno contro il despota, scacciandolo dal palazzo romano, e assumendo l’autorità di primo console della storia (509 a.C.). L’occasione fu scandalosa, lo stupro di una casta matrona, Lucrezia, figlia e sposa di nobili. Sesto era il figlio vanesio di Tarquinio, il re dispotico. Si considerava l’erede, e si concedeva ogni bravata. L’ultima gli fu fatale. Per scommessa, violentò Lucrezia, che davanti ai suoi uomini si pugnalò per l’onta. Invenzione edificante, o cronaca nera attendibile?
Carandini propende per la storicità. Non esistono prove forensi, ma il quadro è solido. Qui non c’è solo la vigliaccata di un ragazzotto della Roma bene. Si scontrano due mondi, due stili. Tarquinio e la sua corte da sultano sono il passato, imbevuto di rilassatezza, amoralità e lusso esagerato, etrusco. Gli altri sono il seme di Roma a venire, gente per cui l’onore e i mores, la dignità di un vivere sobrio, contano più dell’oro. I ribaltoni di quella portata hanno sempre un duro costo. Qui - spiega Carandini - fu il braccio di ferro tra la nuova classe dirigente, i patres, i patrizi, e la plebe.
Il punto dolente erano i debiti. Chi aveva un poderetto e diventava insolvente, lo perdeva, diventava proletario e servo arrabbiato. Qui si inserisce il tassello archeologico della storia. Le fondamenta dell’Auditorium diventano un film: prima la piccola azienda agricola, poi l’esproprio, il trionfo del palazzinaro. La costituzione mista fu l’antidoto al caos politico. La plebe negoziò con la controparte i suoi tribuni, difensori politici che potevano mettere sotto scacco i provvedimenti impopolari. La repubblica resse per secoli, prima di snaturarsi in impero, dagli ordinamenti legali al carisma di uno solo. Così funziona il pendolo della storia.
«Il Giornale» del 26 aprile 2011
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