Il Belgio non ha un vero esecutivo da oltre 300 giorni ma non sembra risentirne troppo. Ministri e sottosegretari sono inutili? C’è chi lo pensa. Da liberali e libertari ai federalisti: privatizzare per togliere il potere agli apparati. Ciò che oggi è ritenuto appannaggio della politica in passato spettava alla società
di Carlo Lottieri
Lo scorso 28 marzo ha superato il record dell’Iraq, rimasto senza governo per 289 giorni, e ora ha superato di slancio anche la soglia dei 300 giorni: così, se nei prossimi due mesi non succede nulla, a Bruxelles si dovrà prendere atto che un Paese può vivere per un anno intero senza presidente del Consiglio, senza un ministro delle Pari opportunità, senza una frotta di sottosegretari all’economia, e via dicendo. Certo è curiosa la vicenda di questo Belgio che non solo è privo di un esecutivo, ma che per giunta negli ultimi mesi - grazie anche ai buoni risultati dell’economia tedesca, con cui i belgi hanno rapporti assai stretti - sta crescendo. Merito del governo ad interim o dell’assenza di un vero governo? La domanda può apparire strana, ma in realtà esiste una vasta letteratura (tra economia e scienza politica, tra diritto e filosofia) schierata a difesa non soltanto della riduzione del peso dello Stato, ma addirittura della sua liquidazione. In fondo, fu addirittura un presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson, ad affermare che il miglior governo è quello che governa meno: e da quell’assunto Henry David Thoreau trasse la conseguenza, ne La disobbedienza civile (1849), che il migliore in assoluto è proprio quello che non governa affatto. La mappa dell’antistatalismo, e quindi di quanti sono persuasi che il Belgio farebbe bene a trovare una nuova destinazione ai Palazzi del potere, è troppo ampia per essere tracciata in un articolo. Qui si possono solo ricordare gli orientamenti principali, ricordando come tra i liberali sia comune la convinzione che ciò che fa lo Stato potrebbero farlo assai meglio i privati. Questa è la posizione di quanti vorrebbero scuole libere invece che istituti di Stato, ospedali Spa invece che Asl, uffici postali in concorrenza invece che strutture ministeriali. Ma tra i liberali vi sono pure quanti, come David Friedman (figlio di Milton e autore de L’ingranaggio della libertà, del 1973) o Anthony de Jasay (Against Politics, del 1997), non vedono ragioni di distinguere le attività propriamente di mercato da quelle che vengono comunemente considerate di stretta competenza dello Stato. Esiste insomma la possibilità di avere a prezzo inferiore e a una qualità migliore ognuno dei servizi che oggi il monopolio statale gestisce in esclusiva. L’economista americano Bruce L. Benson, ad esempio, ha scritto saggi importanti sul diritto (The Enterprise of Law, del 1990) e sulla protezione (To Serve and Protect, del 1998) quali servizi di mercato, che nelle nostre società sono spesso scadenti proprio perché sono stati sottratti alle logiche competitive. Queste considerazioni, prettamente economiche, non sono però le sole. Vi è infatti un altro gruppo di studiosi che a questi argomenti ne accosta altri: insistendo su questi questioni di natura morale. Gli esponenti della scuola inaugurata da Murray N. Rothbard (L’etica della libertà, del 1982) ritengono molto semplicemente che una società senza Stato, e quindi senza monopolio della violenza legale, sia da preferirsi poiché le nostre istituzioni sono per loro essenza illegittime. Qui il punto cruciale è il ricorso alla coercizione nei riguardi di innocenti; e cioè il fatto che lo Stato è un apparato sotto il controllo di un piccolo gruppo di persone che impone la propria volontà a chiunque. Lo Stato non è infatti un’azienda che offre servizi che si possano accettare oppure no: l’agire del potere pubblico ricorda infatti don Vito Corleone - protagonista del film Il Padrino di Francis Ford Coppola - e le sue proposte che non si possono rifiutare. E se la letteratura sulla società senza Stato rischia spesso di sconfinare in discussioni astratte, è anche vero che quelle categorie teoriche hanno avuto il merito di aiutare taluni storici a rileggere con occhi nuovi il passato, scoprendo come nei secoli scorsi molti settori oggi monopolizzati dal ceto politico - dalla produzione di moneta alla protezione, dai tribunali alla previdenza - vedevano un'ampia competizione di soggetti in competizione. Non mancano nemmeno autori che, a dispetto delle apparenze, avanzano ipotesi che sembrano spingere verso l’esautoramento dello Stato stesso. Basti pensare allo svizzero Bruno S. Frey, un economista liberale lontano da ogni estremismo che però ha proposto (The New Democratic Federalism for Europe, del 1999) di attribuire a ogni comune la facoltà di secedere anche parzialmente dalla regione in cui si trova: smettendo di contribuire al finanziamento di un settore e di ricevere quel servizio. A un piccolo centro del parmense non piace la sanità emiliana? Gli si lasci scegliere di non destinare più quei soldi a Bologna e mandarli al Pirellone, in cambio dei servizi sanitari lombardi. E se un domani un’agenzia privata offrirà servizi migliori di quelli lombardi e a prezzi competitivi, quel comune potrà cambiare di nuovo. Qui non si teorizza alcuna anarchia di mercato e non si dichiara certo di voler abolire lo Stato. Neppure si insiste sul carattere violento di un Potere che entra in casa nostra anche quando non è invitato. Ma l’esito di questo modo di ragionare è un federalismo estremo comunque destinato a produrre una progressiva espansione del mercato: un universo in cui la libertà prevale sulle logiche statali e in cui un Belgio senza governo non appare quale un incubo, ma semmai un buon auspicio.
«Il Giornale» dell'11 aprile 2011
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