Ichino e LCdM sognano la rivoluzione liberal di Treu e Biagi
di Marco Valerio Lo Prete
Contratto unico a tempo indeterminato, licenziamento libero e più sussidi di disoccupazione. Parla Nicola Rossi
Contratto unico a tempo indeterminato per tutti i lavoratori dipendenti, possibilità garantita per il datore di lavoro di licenziare per motivi economici e sostegno “alla scandinava” per il licenziato: è questa, in sintesi, la proposta avanzata lo scorso fine settimana sul Corriere della Sera da Pietro Ichino (giuslavorista e senatore del Pd), Luca Cordero di Montezemolo (presidente di Ferrari e di ItaliaFutura) e Nicola Rossi (economista, parlamentare fuoriuscito dal Pd e oggi vicino al think tank montezemoliano). Una proposta che due giorni fa ha ricevuto anche l’endorsement del presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Considerato che in ballo c’è la deregolamentazione dei licenziamenti, ovvero il superamento di fatto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, viene quasi da chiedersi dove sia finita la timidezza di industriali e riformisti vari che nel 2002, quando il governo Berlusconi propose una modifica di quell’articolo dello Statuto, rifuggirono dalla battaglia: “Per noi andare oltre l’articolo 18 vuol dire superare una discriminazione nei confronti di un numero enorme di lavoratori, non solo giovani oramai – dice Nicola Rossi al Foglio – l’apartheid che vige nel nostro mercato del lavoro divide infatti 9 milioni di lavoratori protetti (dipendenti pubblici e di aziende private cui si applica lo Statuto) da 9 milioni di lavoratori dipendenti, tra cui molti precari”. Più flessibilità, meno precari, chiaro. Ciò però non spiega del tutto il ritrovato coraggio di chi latitò nel 2002 e ancor prima nel 2000, in occasione del referendum abrogativo dell’articolo 18 proposto dai Radicali: “Mettiamola così, il sostegno trasversale è dovuto al fatto che noi oggi stiamo chiaramente proponendo di sostituire una tutela normativa che solo nominalmente protegge tutti, come quella dell’articolo 18, con un’altra tutela molto più efficace”. Quale? “Nel nostro progetto non è previsto soltanto un contratto a tempo indeterminato per tutti – osserva l’ex senatore del Pd – Allo stesso tempo viene introdotto un sostegno più significativo al reddito del dipendente licenziato, proporzionale alla durata dell’esperienza lavorativa, e un’assistenza più efficace per ricollocarsi nel mercato del lavoro”.
La flexsecurity nord europea, però, ha un costo. Stato e imprese saranno disposti a sostenerlo? “Gli oneri aggiuntivi li abbiamo stimati e sono pari allo 0,5 per cento in più delle retribuzioni lorde attuali. Si tratta di costi che sarebbero già bilanciati dalla migliore flessibilità che sarà garantita agli imprenditori dalla riforma. Ma comunque, a ulteriore copertura, chiediamo un atto di solidarietà intergenerazionale: si tratta di spostare più in là di un anno l’età pensionabile attuale”. Dopo il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, insomma, dovrebbe cadere un altro tabù: “Non possiamo negare il fatto che oggi, impedendo ai giovani di lasciare la casa dei genitori o di sostenersi autonomamente senza l’aiuto della famiglia, stiamo addossando i costi di una generazione all’altra – osserva Rossi – ma una società civile non dovrebbe mettere i suoi giovani in questa condizione”. L’economista liberista proprio su questo punto, non trattiene la sua delusione: “La sinistra ha del tutto dimenticato cosa voglia dire veramente il termine ‘solidarietà’, a partire da quella che decliniamo come ‘solidarietà intergenerazionale’”.
E con questa chiosa è sistemata l’ala più conservatrice dell’attuale opposizione. Ma cosa dovrebbero dire allora tutti quelli che in questi anni hanno sostenuto la lenta e laboriosa formazione di un apparato riformatore sulla scorta delle proposte di personalità come Treu e Biagi? Chiedere di “riscrivere il diritto del lavoro”, come fate con Ichino e Montezemolo, suona come una sconfessione di tutto ciò: “Assolutamente no – replica Rossi – le riforme del mercato del lavoro hanno funzionato eccome. A dimostrarlo c’è l’andamento del tasso di disoccupazione italiano”, effettivamente ancora più basso rispetto alla media europea, “e il contributo che a ciò hanno dato le nuove forme contrattuali”. “L’errore”, secondo Rossi, “è quello di aver fatto le cose a metà: non abbiamo adeguato il sistema di welfare a questo nuovo mercato del lavoro”.
Eppure, come paventato ieri dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, stabilire d’imperio che i nuovi rapporti di qui in avanti possano essere costituiti solo a tempo indeterminato potrebbe portare a un irrigidimento complessivo e non aiutare la creazione di posti di lavoro: “La nostra proposta – conclude Rossi – non mira a cancellare le forme di contratto che sono evidentemente conseguenti alle esigenze della produzione. La flessibilità va perseguita in modo trasparente, eliminando le espressioni più patologiche della precarietà (contratti a progetto, partite iva fasulle, etc.) ma mantenendo ovvie eccezioni come i contratti a contenuto formativo, quelli di sostituzione temporanea e quelli stagionali”.
Considerato che in ballo c’è la deregolamentazione dei licenziamenti, ovvero il superamento di fatto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, viene quasi da chiedersi dove sia finita la timidezza di industriali e riformisti vari che nel 2002, quando il governo Berlusconi propose una modifica di quell’articolo dello Statuto, rifuggirono dalla battaglia: “Per noi andare oltre l’articolo 18 vuol dire superare una discriminazione nei confronti di un numero enorme di lavoratori, non solo giovani oramai – dice Nicola Rossi al Foglio – l’apartheid che vige nel nostro mercato del lavoro divide infatti 9 milioni di lavoratori protetti (dipendenti pubblici e di aziende private cui si applica lo Statuto) da 9 milioni di lavoratori dipendenti, tra cui molti precari”. Più flessibilità, meno precari, chiaro. Ciò però non spiega del tutto il ritrovato coraggio di chi latitò nel 2002 e ancor prima nel 2000, in occasione del referendum abrogativo dell’articolo 18 proposto dai Radicali: “Mettiamola così, il sostegno trasversale è dovuto al fatto che noi oggi stiamo chiaramente proponendo di sostituire una tutela normativa che solo nominalmente protegge tutti, come quella dell’articolo 18, con un’altra tutela molto più efficace”. Quale? “Nel nostro progetto non è previsto soltanto un contratto a tempo indeterminato per tutti – osserva l’ex senatore del Pd – Allo stesso tempo viene introdotto un sostegno più significativo al reddito del dipendente licenziato, proporzionale alla durata dell’esperienza lavorativa, e un’assistenza più efficace per ricollocarsi nel mercato del lavoro”.
La flexsecurity nord europea, però, ha un costo. Stato e imprese saranno disposti a sostenerlo? “Gli oneri aggiuntivi li abbiamo stimati e sono pari allo 0,5 per cento in più delle retribuzioni lorde attuali. Si tratta di costi che sarebbero già bilanciati dalla migliore flessibilità che sarà garantita agli imprenditori dalla riforma. Ma comunque, a ulteriore copertura, chiediamo un atto di solidarietà intergenerazionale: si tratta di spostare più in là di un anno l’età pensionabile attuale”. Dopo il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, insomma, dovrebbe cadere un altro tabù: “Non possiamo negare il fatto che oggi, impedendo ai giovani di lasciare la casa dei genitori o di sostenersi autonomamente senza l’aiuto della famiglia, stiamo addossando i costi di una generazione all’altra – osserva Rossi – ma una società civile non dovrebbe mettere i suoi giovani in questa condizione”. L’economista liberista proprio su questo punto, non trattiene la sua delusione: “La sinistra ha del tutto dimenticato cosa voglia dire veramente il termine ‘solidarietà’, a partire da quella che decliniamo come ‘solidarietà intergenerazionale’”.
E con questa chiosa è sistemata l’ala più conservatrice dell’attuale opposizione. Ma cosa dovrebbero dire allora tutti quelli che in questi anni hanno sostenuto la lenta e laboriosa formazione di un apparato riformatore sulla scorta delle proposte di personalità come Treu e Biagi? Chiedere di “riscrivere il diritto del lavoro”, come fate con Ichino e Montezemolo, suona come una sconfessione di tutto ciò: “Assolutamente no – replica Rossi – le riforme del mercato del lavoro hanno funzionato eccome. A dimostrarlo c’è l’andamento del tasso di disoccupazione italiano”, effettivamente ancora più basso rispetto alla media europea, “e il contributo che a ciò hanno dato le nuove forme contrattuali”. “L’errore”, secondo Rossi, “è quello di aver fatto le cose a metà: non abbiamo adeguato il sistema di welfare a questo nuovo mercato del lavoro”.
Eppure, come paventato ieri dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, stabilire d’imperio che i nuovi rapporti di qui in avanti possano essere costituiti solo a tempo indeterminato potrebbe portare a un irrigidimento complessivo e non aiutare la creazione di posti di lavoro: “La nostra proposta – conclude Rossi – non mira a cancellare le forme di contratto che sono evidentemente conseguenti alle esigenze della produzione. La flessibilità va perseguita in modo trasparente, eliminando le espressioni più patologiche della precarietà (contratti a progetto, partite iva fasulle, etc.) ma mantenendo ovvie eccezioni come i contratti a contenuto formativo, quelli di sostituzione temporanea e quelli stagionali”.
«Il Foglio» del 12 aprile 2011
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