Viaggio nei laboratori del pedagogismo di sinistra che nel nome di un’istruzione moderna e «avanzata» di fatto abolisce lo studio. In futuro gli insegnanti saranno sostituiti da «facilitatori» e le aule da «open space»
di Giorgio Israel
Dopo il successo di pubblico del libro di Paola Mastrocola (Togliamo il disturbo, Guanda) sembra diffondersi sempre di più la consapevolezza che, per arginare il disastro della scuola, occorra battere con decisione la via del rigore, della serietà e della qualità degli studi, della restituzione all’insegnante di tutto il prestigio della sua funzione, soprattutto per ridare al Paese speranze nel futuro, che soltanto una gioventù preparata, colta e capace può rendere concrete. Si può dunque sperare che le forze che hanno propugnato con tutti i mezzi l’ideologia del «non studio» siano in ritirata? Ecco una bella illusione. Al contrario. Nei laboratori del pedagogismo «progressista» - che trova peraltro alleati anche a destra e si avvale di agganci in talune associazioni professionali, taluni sindacati e in settori dell’amministrazione - si almanaccano ricette ancor più «avanzate» e «rivoluzionarie»; si procede con l’ostinazione delle termiti e con la sordità a qualsiasi obiezione tipica di chi si sente investito di una missione sacra.
Si vuole un assaggio delle ricette che vengono apprestate in questi laboratori? Basta rifarsi a un riferimento esemplare che circola in questi ambienti, il decalogo dell’analista di politiche scolastiche Robert Hawkins. Vediamo quale immagine della scuola del futuro ne emerge, tanto per avere un’idea dei modi con cui dovrebbero studiare (si fa per dire) i nostri figli.
Cominciamo dall’ambiente fisico. Gli studenti vanno a scuola. Entrano in un’aula? Niente affatto. Tutti i muri sono abbattuti e la scuola è diventata un open space. Qua e là vi sono tavoli con apparati tecnologici, in modo che gli studenti si aggreghino per fare delle «attività». Un gruppetto decide di fare una ricerca un argomento di storia, un altro di approfondire a scelta un argomento di ecologia, qualcuno vuole fare da solo. Stiamo scherzando? Niente affatto. Il grande «progresso» è che non devono esistere più programmi scolastici, né libri, né tantomeno insegnanti che rappresentino la fonte della conoscenza. La scuola (ma è in discussione se debba ancora chiamarsi così) deve trasformarsi in uno spazio di costruzione autonoma delle proprie conoscenze e competenze. Insomma, bando alla deleteria «trasmissione» della cultura del passato. I giovani ricostruiscono da soli o in gruppo le conoscenze. I libri non servono, anzi sono l’immagine di un’orrida cultura impositiva, trasmissiva, autoritaria, ex cathedra. I ragazzi, dotati di mezzi informatici, mettono in rete le loro esperienze didattiche, costruite sfruttando quelle già depositate da altri studenti. La cultura, la conoscenza, le biblioteche, i libri, sono sostituiti dal repository delle esperienze didattiche «autonome». Quale ruolo resta all’insegnante in questo processo? Soltanto quello di «specialista della gestione dell’istruzione», un «facilitatore» che aiuta gli studenti a cercare le informazioni, una sorta di animatore culturale del genere degli animatori delle feste di compleanno dei bambini; tanto che è in discussione se nel futuro la figura dell’insegnante servirà ancora.
Ho sentito più di un manager o dirigente di sezioni di ricerca di aziende lamentarsi degli inconvenienti dell’open space, degli ostacoli che frappone a pensare, riflettere, progettare. Ma, per questi ideologi, l’open space deve essere introdotto proprio nel luogo deputato allo studio. Ma qui sta l’equivoco: parlare di studio è roba da vecchi arnesi della cultura. Un punto centrale del decalogo è che la scuola deve basarsi sulla centralità del «giocare», il «giocare serio» su Internet che permetterebbe di far crescere le interazioni sociali e addirittura il senso civico. Insomma, la scuola non serve a studiare ma è soprattutto un luogo di socializzazione. Del resto, non è da questi laboratori ideologici che è uscita l’esilarante affermazione secondo cui il videogioco è la più grande rivoluzione epistemologica del Novecento?
Quindi, esperienze didattiche autonome, apprendimento giocoso che si fa ovunque, da soli, da compagno a compagno, o a gruppi, pescando in rete quel che serve con l’eventuale aiuto del gestore-facilitatore. Qui nasce il capitolo «strumenti» che vede il ruolo centrale della tecnologia informatica. Se qualcuno crede che tutto si riduca a dotare gli studenti di tablet per non portare a scuola carichi di libri, è rimasto alla preistoria. Quali libri? Qui si parla di un sapere diffuso costruito raccattando di tutto in rete con ogni mezzo. Quindi, anche i computer e le reti di computer connessi in rete sono importanti ma non si proiettano nel futuro didattico, che ha il nome di telefono cellulare, di smartphone. Scuola sarà sinonimo di smartphone. Del resto, già ora c’è chi dice che gli editori farebbero bene a non mettere figure nei libri, tanto lo studente munito di smartphone (genitori, preparatevi all’acquisto) su suggerimento del facilitatore scaricherà dalla rete le figure richieste, che si tratti del teorema di Pitagora o del Mosé di Michelangelo.
Un ultimo capitolo riguarda la valutazione. Niente più voti, ma soltanto valutazioni formative completamente automatizzate, e un «portfolio» che illustra le competenze acquisite, eventualmente anche un portfolio di gruppo (sarà da ridere quando verrà presentato al datore di lavoro).
Qualsiasi persona ragionevole capisce quale insulto all’intelligenza rappresenti l’idea forsennata di sostituire la cultura accumulatasi in qualche millennio di storia con il repository delle esperienze didattiche di adolescenti. Qualsiasi persona con i piedi per terra, chiunque abbia mai visto in vita sua un bambino o un ragazzo, si figura quale colossale buffonata, quale circo, quale farsa produrrebbero inevitabilmente ricette del genere, che possono uscire soltanto dalla cucina del più astratto fanatismo ideologico.
La mattina si entra a «scuola» a orari variabili, personalizzati. «Papà, oggi entro alle 12, perché ho concordato a quell’ora una ricerca transdisciplinare sulla questione energetica con Franco e Elena; prima vado a fare un “gioco serio” in rete». «Ci da una mano, facilitatore? Vorremmo fare una ricerca sul conflitto d’interessi». «Ma non vi sembra che da tempo non fate nulla di matematica?». «La matematica è antisociale e comunque le equazioni di secondo grado no, sono repressive». «Facilitatore, ho saputo che in Spagna hanno avviato un progetto scolastico sulla masturbazione detto “La felicità nelle tue mani” (verissimo, ndr). Io e Francesco vorremmo studiarlo e approfondirlo». «Ora vi aiuto a trovarlo in rete». «A me non mi si scarica la foto di Einstein, mi si è impallato l’i-phone». Non vi va di studiare la fisica? Nessun problema: non ci sono programmi. C’è chiasso nell’open space? Niente da fare. Non esiste voto di condotta. Del resto, le urla sono una modalità di socializzazione, come il bullismo.
Bene, non possiamo abusare dello spazio del giornale e offendere la fantasia del lettore che certamente immaginerà da solo scenari ancor più surreali e divertenti, si fa per dire. Si chiederà chi propugna queste cose. Non vogliamo far torto a nessuno, prendendocela con l'uno piuttosto che con un altro. Del resto, basta andare in rete (magari con lo smartphone...) per rendersi conto di quanto pulluli questa ideologia. Questa è la scuola che si vorrebbe costruire per far impallidire le descrizioni dell'attuale degrado proposte da Paola Mastrocola. Questo è il medioevo prossimo venturo che si vorrebbe riservare al Paese.
Si vuole un assaggio delle ricette che vengono apprestate in questi laboratori? Basta rifarsi a un riferimento esemplare che circola in questi ambienti, il decalogo dell’analista di politiche scolastiche Robert Hawkins. Vediamo quale immagine della scuola del futuro ne emerge, tanto per avere un’idea dei modi con cui dovrebbero studiare (si fa per dire) i nostri figli.
Cominciamo dall’ambiente fisico. Gli studenti vanno a scuola. Entrano in un’aula? Niente affatto. Tutti i muri sono abbattuti e la scuola è diventata un open space. Qua e là vi sono tavoli con apparati tecnologici, in modo che gli studenti si aggreghino per fare delle «attività». Un gruppetto decide di fare una ricerca un argomento di storia, un altro di approfondire a scelta un argomento di ecologia, qualcuno vuole fare da solo. Stiamo scherzando? Niente affatto. Il grande «progresso» è che non devono esistere più programmi scolastici, né libri, né tantomeno insegnanti che rappresentino la fonte della conoscenza. La scuola (ma è in discussione se debba ancora chiamarsi così) deve trasformarsi in uno spazio di costruzione autonoma delle proprie conoscenze e competenze. Insomma, bando alla deleteria «trasmissione» della cultura del passato. I giovani ricostruiscono da soli o in gruppo le conoscenze. I libri non servono, anzi sono l’immagine di un’orrida cultura impositiva, trasmissiva, autoritaria, ex cathedra. I ragazzi, dotati di mezzi informatici, mettono in rete le loro esperienze didattiche, costruite sfruttando quelle già depositate da altri studenti. La cultura, la conoscenza, le biblioteche, i libri, sono sostituiti dal repository delle esperienze didattiche «autonome». Quale ruolo resta all’insegnante in questo processo? Soltanto quello di «specialista della gestione dell’istruzione», un «facilitatore» che aiuta gli studenti a cercare le informazioni, una sorta di animatore culturale del genere degli animatori delle feste di compleanno dei bambini; tanto che è in discussione se nel futuro la figura dell’insegnante servirà ancora.
Ho sentito più di un manager o dirigente di sezioni di ricerca di aziende lamentarsi degli inconvenienti dell’open space, degli ostacoli che frappone a pensare, riflettere, progettare. Ma, per questi ideologi, l’open space deve essere introdotto proprio nel luogo deputato allo studio. Ma qui sta l’equivoco: parlare di studio è roba da vecchi arnesi della cultura. Un punto centrale del decalogo è che la scuola deve basarsi sulla centralità del «giocare», il «giocare serio» su Internet che permetterebbe di far crescere le interazioni sociali e addirittura il senso civico. Insomma, la scuola non serve a studiare ma è soprattutto un luogo di socializzazione. Del resto, non è da questi laboratori ideologici che è uscita l’esilarante affermazione secondo cui il videogioco è la più grande rivoluzione epistemologica del Novecento?
Quindi, esperienze didattiche autonome, apprendimento giocoso che si fa ovunque, da soli, da compagno a compagno, o a gruppi, pescando in rete quel che serve con l’eventuale aiuto del gestore-facilitatore. Qui nasce il capitolo «strumenti» che vede il ruolo centrale della tecnologia informatica. Se qualcuno crede che tutto si riduca a dotare gli studenti di tablet per non portare a scuola carichi di libri, è rimasto alla preistoria. Quali libri? Qui si parla di un sapere diffuso costruito raccattando di tutto in rete con ogni mezzo. Quindi, anche i computer e le reti di computer connessi in rete sono importanti ma non si proiettano nel futuro didattico, che ha il nome di telefono cellulare, di smartphone. Scuola sarà sinonimo di smartphone. Del resto, già ora c’è chi dice che gli editori farebbero bene a non mettere figure nei libri, tanto lo studente munito di smartphone (genitori, preparatevi all’acquisto) su suggerimento del facilitatore scaricherà dalla rete le figure richieste, che si tratti del teorema di Pitagora o del Mosé di Michelangelo.
Un ultimo capitolo riguarda la valutazione. Niente più voti, ma soltanto valutazioni formative completamente automatizzate, e un «portfolio» che illustra le competenze acquisite, eventualmente anche un portfolio di gruppo (sarà da ridere quando verrà presentato al datore di lavoro).
Qualsiasi persona ragionevole capisce quale insulto all’intelligenza rappresenti l’idea forsennata di sostituire la cultura accumulatasi in qualche millennio di storia con il repository delle esperienze didattiche di adolescenti. Qualsiasi persona con i piedi per terra, chiunque abbia mai visto in vita sua un bambino o un ragazzo, si figura quale colossale buffonata, quale circo, quale farsa produrrebbero inevitabilmente ricette del genere, che possono uscire soltanto dalla cucina del più astratto fanatismo ideologico.
La mattina si entra a «scuola» a orari variabili, personalizzati. «Papà, oggi entro alle 12, perché ho concordato a quell’ora una ricerca transdisciplinare sulla questione energetica con Franco e Elena; prima vado a fare un “gioco serio” in rete». «Ci da una mano, facilitatore? Vorremmo fare una ricerca sul conflitto d’interessi». «Ma non vi sembra che da tempo non fate nulla di matematica?». «La matematica è antisociale e comunque le equazioni di secondo grado no, sono repressive». «Facilitatore, ho saputo che in Spagna hanno avviato un progetto scolastico sulla masturbazione detto “La felicità nelle tue mani” (verissimo, ndr). Io e Francesco vorremmo studiarlo e approfondirlo». «Ora vi aiuto a trovarlo in rete». «A me non mi si scarica la foto di Einstein, mi si è impallato l’i-phone». Non vi va di studiare la fisica? Nessun problema: non ci sono programmi. C’è chiasso nell’open space? Niente da fare. Non esiste voto di condotta. Del resto, le urla sono una modalità di socializzazione, come il bullismo.
Bene, non possiamo abusare dello spazio del giornale e offendere la fantasia del lettore che certamente immaginerà da solo scenari ancor più surreali e divertenti, si fa per dire. Si chiederà chi propugna queste cose. Non vogliamo far torto a nessuno, prendendocela con l'uno piuttosto che con un altro. Del resto, basta andare in rete (magari con lo smartphone...) per rendersi conto di quanto pulluli questa ideologia. Questa è la scuola che si vorrebbe costruire per far impallidire le descrizioni dell'attuale degrado proposte da Paola Mastrocola. Questo è il medioevo prossimo venturo che si vorrebbe riservare al Paese.
«Il Giornale» del 18 aprile 2011
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