di Luigi Mascheroni
A proposito di «cultura» la frase più infelice e più citata dell’anno, una battuta che ha fatto imbufalire in maniera bipartisan i colleghi di governo e gli avversari all’opposizione, è certamente quella scappata a Giulio Tremonti, secondo il quale - citiamo in maniera filologicamente corretta - «Di cultura non si vive: vado alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina Commedia ...». Poiché a un uomo che si occupa di economia si è disposti a concedere tante virtù ma non il dono dell’ironia, il ministro non ha fatto ridere nessuno, scandalizzando tutti. E comunque, a dimostrazione che la cultura si mangia - eccome - i numeri ci dicono che l’italiano-medio è sempre più affamato. Di arte, di cinema, di musica, forse un po’ meno di libri..., dimostrando insomma un robusto appetito per la Creatività e la Conoscenza.
A dispetto della litania funebre che l’intellighenzia snob recita da tempo, soprattutto negli ultimi anni, sulla condizione barbarica alla quale si è ridotto il popolo italico - ignorante, gretto, telerimbecillito e tecnocatatonico -, cifre alla mano la gente va più al cinema che allo stadio, consuma più libretti d’opera che e-book e in percentuale frequenta più i siti archeologici che i sexy shop. Si continua a profetizzare l’apocalisse culturale e ci risvegliamo in un piccolo paradiso del Sapere. Chi l’avrebbe mai detto?
Lo dice l’ultimo rapporto annuale di Federculture dal titolo La cultura serve al presente, un report molto interessante perché in controtendenza, e non a caso finora passato abbastanza sotto silenzio, che descrive l’andamento dei consumi culturali (ma anche gli ostacoli e le inefficienze che, comunque, frenano ancora il completo sviluppo del settore) e che getta per una volta più luci che ombre sulla fruizione del nostro patrimonio artistico-archeologico e della nostra industria creativa. Un ambito in cui annaspiamo molto meno di quanto credano i catastrofisti, come a esempio, ultimi in ordine di tempo, Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco che nel loro saggio Italia Reloaded (il Mulino) dipingono l’Italia come la terra degli «zombie culturali», una landa desolata dove il patrimonio artistico più che un tesoro è una tomba, visitata da pochi nostalgici, e la produzione culturale contemporanea completamente morta, incapace di far rivivere dal punto di vista della creatività un Paese che per secoli ha dato lezioni di civiltà al resto del mondo.
Oggi forse gli italiani non possono più fregiarsi del titolo di professori, ma non sono neppure asini. Certo: nel campo della tutela, della valorizzazione e del «rilancio» dei beni culturali le cose da fare sono ancora tantissime, ma secondo i dati di Federculture (l’associazione nazionale dei soggetti pubblici e privati che gestiscono le attività legate alla cultura e al tempo libero) nell’ultimo anno la fruizione di mostre e musei è aumentata del 3,8% e quella dei siti archeologici del 2,2% (tendenza confermata anche dalle rilevazioni Siae sulla spesa del pubblico che segna, nel primo semestre 2010, addirittura un +43,8%), il teatro è cresciuto del 13,4% rispetto al 2009 e persino i concerti di musica classica hanno visto un incremento della domanda del 5,9%.
Può sembrare un sogno, invece è realtà: gli italiani consumano semre più cultura. Anche un giornale come il Fatto quotidiano, di solito poco disposto a voli di ottimismo in queste cose, scrivendo ieri del rapporto di Federculture e del recente reintegro ai livelli dellos corso anno dei contributi del Fus, ha “dovuto” titolare «Ora lo spettacolo respira». Fatti, non opinioni.
Insomma, tra tagli e crisi economica è vero che gli investimenti sono sempre di meno (soprattutto da parte dei privati...), sta di fatto che le famiglie italiane per la cultura e lo spettacolo - settore che nel 2010 ha contribuito al Pil con 39,7 miliardi di euro - tirano fuori dalle tasche ben il 7% della loro spesa totale, una bella sommetta. Che peraltro, tra il 1999 e il 2009, in termini assoluti è aumentata del 24,3%.
Tra i singoli settori il cinema è quello con gli indicatori più positivi (ingressi +13,2% e spesa del pubblico +25,6%), ma a crescere è soprattutto il teatro (ingressi +1,2% e spesa del pubblico +3,7%) con un aumento dei consumi culturali del 13,5% rispetto al 2009. Un dato ancora più curioso se si considera il decennio 2000-2010, in cui è cresciuto del 41,86%, quasi quanto ha perso invece la fruizione dal vivo dello sport (-43,17%). Incredibile: più Cechov, meno calcio. E non è un’eresia.
Nel 2010, annus mirabilis per l’arte con l’inaugurazione del Maxxi e del Macro a Roma, l’eccezionale apertura del Museo del Novecento a Milano, grandi esposizioni-evento, eccetera eccetera.., sono andati bene, come già accennato, non solo mostre e musei (+3,8%, con un aumento della spesa del pubblico del 43,8%) ma anche i concerti di musica classica (+5,9%) e le entrate ai siti archeologici (+2,3%). A proposito: nella relativa classifica spicca la tanto criticata e svergognata Pompei che, nonostante le recenti drammatiche vicende, vede al suo attivo un 11,1%. L’antica città colpita dal Vesuvio sarà anche “tenuta” male, ma è sempre desiderabilissima. Hanno detto che Pompei è la metafora del Paese che crolla. Forse, specularmente, lo è anche del Paese che sta in piedi: criticato, svenduto, dipinto come una terra di cafoni senza più memoria e in crisi di identità e che invece, numeri alla mano, si rivela più colto di quanto i suoi intellettuali di riferimento - sempre un passo indietro rispetto al villaggio reale - siano disposti a concederle. Italia, povera incompresa.
A dispetto della litania funebre che l’intellighenzia snob recita da tempo, soprattutto negli ultimi anni, sulla condizione barbarica alla quale si è ridotto il popolo italico - ignorante, gretto, telerimbecillito e tecnocatatonico -, cifre alla mano la gente va più al cinema che allo stadio, consuma più libretti d’opera che e-book e in percentuale frequenta più i siti archeologici che i sexy shop. Si continua a profetizzare l’apocalisse culturale e ci risvegliamo in un piccolo paradiso del Sapere. Chi l’avrebbe mai detto?
Lo dice l’ultimo rapporto annuale di Federculture dal titolo La cultura serve al presente, un report molto interessante perché in controtendenza, e non a caso finora passato abbastanza sotto silenzio, che descrive l’andamento dei consumi culturali (ma anche gli ostacoli e le inefficienze che, comunque, frenano ancora il completo sviluppo del settore) e che getta per una volta più luci che ombre sulla fruizione del nostro patrimonio artistico-archeologico e della nostra industria creativa. Un ambito in cui annaspiamo molto meno di quanto credano i catastrofisti, come a esempio, ultimi in ordine di tempo, Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco che nel loro saggio Italia Reloaded (il Mulino) dipingono l’Italia come la terra degli «zombie culturali», una landa desolata dove il patrimonio artistico più che un tesoro è una tomba, visitata da pochi nostalgici, e la produzione culturale contemporanea completamente morta, incapace di far rivivere dal punto di vista della creatività un Paese che per secoli ha dato lezioni di civiltà al resto del mondo.
Oggi forse gli italiani non possono più fregiarsi del titolo di professori, ma non sono neppure asini. Certo: nel campo della tutela, della valorizzazione e del «rilancio» dei beni culturali le cose da fare sono ancora tantissime, ma secondo i dati di Federculture (l’associazione nazionale dei soggetti pubblici e privati che gestiscono le attività legate alla cultura e al tempo libero) nell’ultimo anno la fruizione di mostre e musei è aumentata del 3,8% e quella dei siti archeologici del 2,2% (tendenza confermata anche dalle rilevazioni Siae sulla spesa del pubblico che segna, nel primo semestre 2010, addirittura un +43,8%), il teatro è cresciuto del 13,4% rispetto al 2009 e persino i concerti di musica classica hanno visto un incremento della domanda del 5,9%.
Può sembrare un sogno, invece è realtà: gli italiani consumano semre più cultura. Anche un giornale come il Fatto quotidiano, di solito poco disposto a voli di ottimismo in queste cose, scrivendo ieri del rapporto di Federculture e del recente reintegro ai livelli dellos corso anno dei contributi del Fus, ha “dovuto” titolare «Ora lo spettacolo respira». Fatti, non opinioni.
Insomma, tra tagli e crisi economica è vero che gli investimenti sono sempre di meno (soprattutto da parte dei privati...), sta di fatto che le famiglie italiane per la cultura e lo spettacolo - settore che nel 2010 ha contribuito al Pil con 39,7 miliardi di euro - tirano fuori dalle tasche ben il 7% della loro spesa totale, una bella sommetta. Che peraltro, tra il 1999 e il 2009, in termini assoluti è aumentata del 24,3%.
Tra i singoli settori il cinema è quello con gli indicatori più positivi (ingressi +13,2% e spesa del pubblico +25,6%), ma a crescere è soprattutto il teatro (ingressi +1,2% e spesa del pubblico +3,7%) con un aumento dei consumi culturali del 13,5% rispetto al 2009. Un dato ancora più curioso se si considera il decennio 2000-2010, in cui è cresciuto del 41,86%, quasi quanto ha perso invece la fruizione dal vivo dello sport (-43,17%). Incredibile: più Cechov, meno calcio. E non è un’eresia.
Nel 2010, annus mirabilis per l’arte con l’inaugurazione del Maxxi e del Macro a Roma, l’eccezionale apertura del Museo del Novecento a Milano, grandi esposizioni-evento, eccetera eccetera.., sono andati bene, come già accennato, non solo mostre e musei (+3,8%, con un aumento della spesa del pubblico del 43,8%) ma anche i concerti di musica classica (+5,9%) e le entrate ai siti archeologici (+2,3%). A proposito: nella relativa classifica spicca la tanto criticata e svergognata Pompei che, nonostante le recenti drammatiche vicende, vede al suo attivo un 11,1%. L’antica città colpita dal Vesuvio sarà anche “tenuta” male, ma è sempre desiderabilissima. Hanno detto che Pompei è la metafora del Paese che crolla. Forse, specularmente, lo è anche del Paese che sta in piedi: criticato, svenduto, dipinto come una terra di cafoni senza più memoria e in crisi di identità e che invece, numeri alla mano, si rivela più colto di quanto i suoi intellettuali di riferimento - sempre un passo indietro rispetto al villaggio reale - siano disposti a concederle. Italia, povera incompresa.
«Il Giornale» del 21 aprile 2011
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