Il circo mediatico e la banalizzazione della vita
di Davide Rondoni
di Davide Rondoni
La strage di Erba e gli infiniti commenti, la ripresa del Costanzo show con la puntata su Vallettopoli, il telefonino "piratesco" di Pannella a Caserta. Tre fatti, lontani, inavvicinabili tra loro. Eppure hanno in comune qualcosa che sta segnando il destino d'Italia. Cosa lega il parlare e straparlare di perdono, vendetta, analisi psico-condominiali, l'ennesimo palco salottiero televisivo, e la indiscrezione in un vertice politico istituzionale? È una continua, ormai dissennata perdita di ogni pudore, di ogni rispetto. Pudore o rispetto verso l'enormità di dolori, verso l'amore e le sue rappresentazioni, e anche verso le Istituzioni. Magari con la scusa del diritto di informazione, o del dovere di sentirsi spigliati. O per un più nascosto calcolo di tornaconto, misero o grande di audience o carriere. Nel primo caso abbiamo sentito parlare e straparlare di perdono, di vendetta, e di ogni genere di fesseria o prurito passava per la testa di intervistati e intervistatori. Quasi dimenticando, o meglio "sfruttando" il fatto dello sbalorditivo, tremendo orrore che s'è abbattuto su quella casa. Esibendo titoli, foto, racconti insistiti e barocchi. Non che certe notizie non meritino risalto e commento. Ma è un'altra cosa questo compiacimento, questo ripetere infinitamente, inutilmente, chiacchierume che stordisce. Il Costanzo show, ex programma leader dei salotti televisivi cerca ora faticoso rilancio. Il suo ideatore, tessitore come ragno al centro della tela, ha detto che si è accorto che c'era una specie di popolo di orfani del suo salotto frullatore, dove una cultura sospesa tra cinismo e appariscenza ha trovato i mix migliori. La prima puntata, l'entrata in scena è stata dedicata allo scandalo vallettopoli con tanto di dibattito tra mattatori del video. Insomma una puntata di chiacchiere sulle chiacchiere intorno ai fatti privati di qualcuno. E il gesto di Pannella, dal sapore goliardico, però dà il segno di una mancanza di discrezione in chi è investito da milioni di cittadini di occuparsi del difficile governo del Paese. Tre campi diversi: la cronaca nera, il salotto di costume, la politica istituzionale. E una sorta di identica malattia, o decadenza. Come se il pudore fosse uno strano ostacolo. O fosse da riservarsi, come in realtà accade a tutti, alle cose più personali, a certi fatti che potrebbero ferire chi amiamo, a certe sventure che colpiscono gli amici o i parenti. Lì, nella vita reale, nella esperienza quotidiana il pudore ancora vale. Come piccolo o grande segno di rispetto, come cautela per le cose che meritano cautela, che toccano il cuore della vita, o che non possono essere condivise in modo casuale. Nella vita che ci tocca senza la mediazione della tv, della informazione, il pudore, quasi come un istinto primordiale, resiste. Anche se, specie nei più giovani, sembra trasformarsi, ridotto a vergogna. Provocati in mille modi a non aver vergogna di nulla, si esibiscono in modi quasi grotteschi. Eppure ciò non elimina in loro una dura forza di pudore, sorpreso in mille modi. Il pudore non è la vergogna, e nemmeno l'ipocrita difesa del buon nome. No, è qualcosa di più forte, di duro. È vivo in ogni civiltà che ha rispetto vero, e non solo a proclami, per la vita umana. È forte e dolce volontà di protezione, di cura. Invece la tv o il circo delle pubbliche esibizioni - in cronaca, spettacolo o in politica - vuole a ogni passo colpire il pudore, deriderlo, come fosse un vecchio arnese per babbei. Ma il pudore è più forte di tutta questa banalizzazione della vita. È un'esperienza radicale, elementare, più forte del concetto e della pratica che riduce ogni cosa pubblica a impudìca. E proprio il rispetto del pudore sarà una specie di arma segreta con cui opporsi al deserto che inaridisce le radici del vivere.
«Avvenire» del 16 gennaio 2007
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