Dopo la polemica sul negazionismo fra gli storici e il ministro Mastella, qual è il modo migliore di far memoria sulla Shoah?
Di Massimo Giuliani
Pensando al monito di Adorno il ricordo non va banalizzato. Ben venga ogni iniziativa ma con sobrietà, non come moda ma come lezione di pensiero ed educazione morale
È giusto che la politica, e non solo studiosi ed educatori, si preoccupino di difendere la memoria degli offesi, delle vittime e di chi è stato ferito in maniera profonda da eventi storici che hanno una loro sostanziale dimensione politica? La proposta del ministro tedesco della giustizia, la signora Zypries, di creare una legge per quella difesa, è del tutto giustificabile, e in pratica significa dichiarare reato la negazione della Shoah. In Germania oggi questa legge può servire e la maggioranza dei tedeschi può approvare (e d'altronde in altri paesi europei vige lo stesso reato). E si comprende anche perché i rappresentanti dell'Ucei, Unione delle comunità ebraiche italiane, abbiamo dato via libera alla proposta di legge che il ministro guardasigilli Mastella sta preparando per il 27 gennaio. Tuttavia il coro di critiche che si sta levando da parte degli storici professionisti e di molti intellettuali europei - non certo tacciabili di insensibilità culturale o di opportunismo politico - deve essere preso seriamente in considerazione. Ci si deve cioè davvero interrogare se le buone intenzioni e lo scopo di questo disegno di legge contro chi nega l'esistenza della Shoah sia meglio servito, appunto, da una legge e da sanzioni penali (carcere incluso) o se tali strumenti non siano, per dirla con l'appello di quegli stessi storici, «inutili o peggio controproducenti». Tutta la materia merita un surplus di riflessione collettiva per non incorrere nel falso contrasto tra difesa della memoria offesa e libertà di ricerca storica e di espressione. Il caso inglese del negazionista David Irving, che pur avendo pagato con il carcere in Austria il suo «reato» sta diventando un eroe della libertà di parola, deve far riflettere a fondo.
Qual è il modo migliore per fare memoria della Shoah in un'Europa in cui i venti della destra xenofoba e antisemita sono ancora forti? Il modo in cui in Italia si sta celebrando la «giornata della memoria» sta rispondendo agli scopi per cui venne istituita? A queste legittime domande va aggiunta una riflessione sui rischi del fare memoria della Shoah - dal discorso pubblico al tema in classe, dal monumento all'arte, dal museo al concerto - in forme che possono tradire il senso di quel che deve essere ricordato. Il come è già parte integrante del cosa. Chi non ricorda l'ammonimento di Theodor W. Adorno, quando nel 1949 scrisse che «fare poesia dopo Auschwitz sarebbe stato un atto di barbarie». Era il monito di un tedesco ai suoi concittadini, perché comprendessero quale cesura intellettuale fosse stato il nazismo e quali implicazioni radicali comportasse assumersene la responsabilità. Fu letto, più genericamente, come un'estensione del secondo comandamento: non ti farai immagine alcuna delle atrocità sintetizzare nel nome Auschwitz, perché tale evento è stato così sconvolgente che nessuna categoria estetica sarebbe capace di coglierne il senso. È però difficile immaginare un consiglio filosofico e un comando estetico più disatteso e trasgredito di quello adorniano. La sua molteplice, continua smentita venne da subito da intellettuali e artisti come Hans-Magnus Enzensberger, Nelly Sachs (Premio Nobel per la letteratura nel 1967), Paul Celan, Peter Weiss, per non citarne che alcuni famosi e di lingua tedesca; ma fu formulata con la consueta chiarezza e acutezza di giudizio da Primo Levi.
A Giulio Nascimbeni, del "Corriere", che lo intervistava su quel divieto di poesia dopo Auschwitz, Levi rispose in modo sorprendente ed emblematico, che costringe il lettore, già sorpreso dal paradosso della sentenza adorniana, a non lasciarsi sopraffare da essa, ma a valutarla in modo critico nonostante l'autorità di chi l'ha pronunciata. Rispose: «La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. In quegli anni avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Una lunga teor ia di poeti, scrittori, architetti e registi, soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta, ha diffuso immagini, metafore e simboli di Auschwitz per codificare e trasmettere la memoria della più grande barbarie del XX secolo. Fino a quel monumento nel tempo che è la giornata del 27 gennaio, con l'annuale cascata di iniziative che sono sotto i nostri occhi. Memoria ormai ineludibile, immagini ubique, retorica cui non ci si può (né ci si deve) sottrarre. Non c'è da stupirsi, dunque, se molti inizino a interrogarsi sui rischi della proliferazione di poesia (leggi: film come Schindler's List e La vita è bella, mostre, convegni, pagine intere di giornali, rappresentazioni teatrali, persino fumetti) su Auschwitz. «La massificazione dei simboli dell'Olocausto - scrivono Marcello Flores e Simon Levis Sullam nell'introduzione al secondo volume della Storia della Shoah, appena mandata in libreria dalla Utet e tutta dedicata alla memoria del XX secolo - ha reso sì immediatamente riconoscibili quelle che sono divenute vere e proprie "icone dell'atrocità", d'altra parte essa le ha anche svuotate del loro significato storico e in un certo senso della loro effettiva referenzialità e pregnanza». Se dell'industria culturale la memoria ha bisogno per diffondersi e codificarsi, essa ha ancor più bisogno del senso critico, della capacità di comparazione storica e di qualche antidoto alla retorica contro i rischi di banalizzazione o di svuotamento di contenuti specifici e come tali complessi, non «romanticizzabili». Ben venga ogni iniziativa, ma venga con sobrietà nella consapevolezza che la memoria della Shoah non può essere una moda ma una dura lezione di pensiero ed educazione morale. Venga con il pudore che si deve a chi è stato costretto al silenzio delle vittime. Venga con la voglia, silenziosa ma determinata, di capire le radici dei fenomeni, soprattutto in questi tristi giorni di saluti romani, chiari segni che l'inciviltà della violenza è ancora tra noi.
Qual è il modo migliore per fare memoria della Shoah in un'Europa in cui i venti della destra xenofoba e antisemita sono ancora forti? Il modo in cui in Italia si sta celebrando la «giornata della memoria» sta rispondendo agli scopi per cui venne istituita? A queste legittime domande va aggiunta una riflessione sui rischi del fare memoria della Shoah - dal discorso pubblico al tema in classe, dal monumento all'arte, dal museo al concerto - in forme che possono tradire il senso di quel che deve essere ricordato. Il come è già parte integrante del cosa. Chi non ricorda l'ammonimento di Theodor W. Adorno, quando nel 1949 scrisse che «fare poesia dopo Auschwitz sarebbe stato un atto di barbarie». Era il monito di un tedesco ai suoi concittadini, perché comprendessero quale cesura intellettuale fosse stato il nazismo e quali implicazioni radicali comportasse assumersene la responsabilità. Fu letto, più genericamente, come un'estensione del secondo comandamento: non ti farai immagine alcuna delle atrocità sintetizzare nel nome Auschwitz, perché tale evento è stato così sconvolgente che nessuna categoria estetica sarebbe capace di coglierne il senso. È però difficile immaginare un consiglio filosofico e un comando estetico più disatteso e trasgredito di quello adorniano. La sua molteplice, continua smentita venne da subito da intellettuali e artisti come Hans-Magnus Enzensberger, Nelly Sachs (Premio Nobel per la letteratura nel 1967), Paul Celan, Peter Weiss, per non citarne che alcuni famosi e di lingua tedesca; ma fu formulata con la consueta chiarezza e acutezza di giudizio da Primo Levi.
A Giulio Nascimbeni, del "Corriere", che lo intervistava su quel divieto di poesia dopo Auschwitz, Levi rispose in modo sorprendente ed emblematico, che costringe il lettore, già sorpreso dal paradosso della sentenza adorniana, a non lasciarsi sopraffare da essa, ma a valutarla in modo critico nonostante l'autorità di chi l'ha pronunciata. Rispose: «La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. In quegli anni avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Una lunga teor ia di poeti, scrittori, architetti e registi, soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta, ha diffuso immagini, metafore e simboli di Auschwitz per codificare e trasmettere la memoria della più grande barbarie del XX secolo. Fino a quel monumento nel tempo che è la giornata del 27 gennaio, con l'annuale cascata di iniziative che sono sotto i nostri occhi. Memoria ormai ineludibile, immagini ubique, retorica cui non ci si può (né ci si deve) sottrarre. Non c'è da stupirsi, dunque, se molti inizino a interrogarsi sui rischi della proliferazione di poesia (leggi: film come Schindler's List e La vita è bella, mostre, convegni, pagine intere di giornali, rappresentazioni teatrali, persino fumetti) su Auschwitz. «La massificazione dei simboli dell'Olocausto - scrivono Marcello Flores e Simon Levis Sullam nell'introduzione al secondo volume della Storia della Shoah, appena mandata in libreria dalla Utet e tutta dedicata alla memoria del XX secolo - ha reso sì immediatamente riconoscibili quelle che sono divenute vere e proprie "icone dell'atrocità", d'altra parte essa le ha anche svuotate del loro significato storico e in un certo senso della loro effettiva referenzialità e pregnanza». Se dell'industria culturale la memoria ha bisogno per diffondersi e codificarsi, essa ha ancor più bisogno del senso critico, della capacità di comparazione storica e di qualche antidoto alla retorica contro i rischi di banalizzazione o di svuotamento di contenuti specifici e come tali complessi, non «romanticizzabili». Ben venga ogni iniziativa, ma venga con sobrietà nella consapevolezza che la memoria della Shoah non può essere una moda ma una dura lezione di pensiero ed educazione morale. Venga con il pudore che si deve a chi è stato costretto al silenzio delle vittime. Venga con la voglia, silenziosa ma determinata, di capire le radici dei fenomeni, soprattutto in questi tristi giorni di saluti romani, chiari segni che l'inciviltà della violenza è ancora tra noi.
«Avvenire» del 24 gennaio 2007
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