Da oggi, per la prima volta in Italia, un tribunale dovrà procedere contro chi tace sul genocidio. Alla sbarra un testo Utet allegato a «Repubblica» che offre solo la versione turca
di Paolo Lambruschi
Gli editori si difendono invocando la libertà di parola e sostenendo che la divulgazione non è obbligata al rigore storiografico. Alla Corte il compito di stabilire se esiste qualche limite ai diritti di espressione
Prosegue oggi, con l'udienza di comparizione personale delle parti davanti al Tribunale di Torino, una causa senza precedenti in Italia. L'Unione degli armeni d'Italia, unitamente alla Fondazione , e 82 armeni hanno avviato un'azione legale per difendere la propria identità personale, che ritengono ferita dalla pubblicazione di una collana storica allegata al quotidiano La Repubblica, la quale ha ignorato il Metz Yeghern, il grande male dimenticato dal mondo. Così viene chiamato il primo genocidio del Novecento, perpetrato dai turchi, i quali deportarono e sterminarono un milione e mezzo di armeni in particolare tra il 1915 e il 1917. Purtroppo nel «secolo breve» la pulizia etnica dei territori e lo sterminio di massa sono poi divenuti un'arma usata da molti eserciti contro coorti di civili inermi. Basta ricordare la Shoah e, nemmeno quidici anni fa, i fatti di Bosnia e Ruanda. Tutti questi eventi furono ispirati proprio dalla tragedia avvenuta nei territori ottomani tra Anatolia, Cilicia e Siria durante la Grande guerra. Hitler, davanti alla titubanza dei suoi generali ad invadere la Polonia disse: «Chi si ricorda oggi degli armeni?»
Il processo è più che mai attuale. La Turchia, candidata ad entrare nella Ue, non ha mai affrontato la questione, anzi parlarne è espressamente vietato dall'articolo 301 del codice penale turco. È stato perseguitato perfino il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk e altri storici critici col governo. E chi si ostina a tenerne viva la memoria rischia la pelle, come dimostra il recente omicidio a Istanbul del giornalista di origine armena Hrant Dink, ucciso da un giovane ultrà nazionalista venuto - forse non è una coincidenza - dalla stessa città dove venne assassinato don Andrea Santoro. La condanna dell'omicidio da parte dell'opinione pubblica e delle autorità è stata unanime, ai funerali di Dink ha partecipato la nazione intera. Ma il termine «genocidio» riferito al popolo armeno rimane un tabù sul Bosforo.
Tornia mo nell'aula del Tribunale di Torino. Come ci si è arrivati? Davanti ai magistrati, come detto, compariranno l'Unione armeni d'Italia, la fondazione «Serapian» e una rappresentanza degli 82 cittadini italiani di origine armena che chiedono in sostanza una riparazione culturale. Sostengono che passare sotto silenzio il genocidio della loro gente, sulla cui memoria si è costruita un'identità collettiva, equivale a negare l'esistenza di questa comunità. Dall'altra parte l'editoriale L'Espresso, editore de La Repubblica, la Utet, la quale realizzò nel 2005 la collana «La storia» per conto del quotidiano edito da Carlo De Benedetti, e De Agostini. Nel capitolo che parla del Medio Oriente tra il 1915 e il 1917 non v'è traccia del genocidio. Secondo gli armeni, il testo accoglie solo le tesi e le menzogne diffuse dalla propaganda turca e basate su due capisaldi: i morti non furono più di trecentomila e lo sterminio non venne pianificato. Il volume, che sintetizza le pagine dello studioso negazionista americano Stanford Shaw, sostiene infatti che decine di migliaia di persone morirono di stenti durante la deportazione, vittime di circostanze tragiche e non di un disegno preciso. Certo, si ammette che, al tramonto dell'Impero ottomano i Turchi, guidati dai nazionalisti, vollero impadronirsi delle terre armene per creare un grande Stato turcofono fino al Caucaso. Perciò attuarono politiche ostili alle minoranze cristiane. Ma, nel 1915, secondo la ricostruzione della «Storia», parte degli armeni si alleò con i russi e questo provocò l'escalation delle deportazioni dei «traditori». Insomma, offre una serie di giustificazioni del massacro che però non viene definito genocidio. Nessun accenno a interpretazioni diverse.
In Europa non è consentito - giustamente - mettere in discussione l'Olocausto. I tentativi revisionistici, da ultimo quello operato dal presidente iraniano Ahmadinejad, vengono accolti con disprezzo. Riteniamo come minimo poco attendibili gl i accademici che minimizzano il numero di ebrei morti nei lager o che negano l'esistenza dei campi. Allora perché usare un metro diverso con gli armeni? Anche se la mattanza è stata compiuta dai carnefici con mezzi diversi rispetto all'Olocausto, la sostanza non cambia: è sempre genocidio.
Il giudice non è uno storico. Da una parte si troverà di fronte le ragioni di chi chiede il rispetto della memoria e dell'identità. Viceversa, gli editori oppongono il diritto più classico dell'Occidente, la libertà illimitata di espressione. Più discutibile l'altra argomentazione: in sostanza una collana divulgativa non è obbligata ad adottare lo stesso rigore di un testo storiografico. Insomma, il grande pubblico che paga un libro pochi euro si deve accontentare delle mezze verità.
La sentenza potrebbe essere rivoluzionaria. Infatti la corte deve stabilire dove finisce la libertà di espressione individuale. Il magistrato dovrà chiarire se un intellettuale in Italia può dire ciò che vuole arrivando a negare la verità dei fatti. In Francia, nel 1993, in una causa analoga contro lo studioso Bernard Lewis divenuto negazionista, la Corte diede ragione agli armeni affermando che la libertà di parola e pensiero dello storico non può prescindere dagli accadimenti e dal metodo scientifico perché può ledere la dignità altrui. I transalpini addirittura hanno approvato una legge che vieta di negare l'Olocausto e il Metz Yeghern.
La Chiesa cattolica è sempre stata accanto agli armeni. Papa Benedetto XV, durante la Prima guerra mondiale, fu l'unico a levare la sua voce in difesa di quel popolo. Nel 2001 Giovanni Paolo II si recò in Armenia e a Erevan, la capitale, a pregare per i morti del genocidio. Ma altri elementi indicano un cambiamento di clima. L'Occidente, che tacque a lungo perché vedeva nella Turchia un baluardo contro il neonato colosso sovietico, ha scelto da che parte stare da oltre vent'anni. La commissione per i diritti umani dell'Onu ha infatti riconosciuto il genocidio de l popolo armeno. Sulla stessa linea il Parlamento europeo, che ha incluso la questione tra quelle che Ankara deve mettere in agenda se vuole aderire alla Ue. I Parlamenti di molti Stati, incluso il nostro e quello francese, hanno riconosciuto il genocidio. Così come molti consigli regionali e i consigli comunali delle maggiori città italiane. Aspettiamo il verdetto della giustizia italiana cui, in attesa di poter affermare la verità sui libri, gli armeni hanno fatto ricorso per colmare un buco nel quale da decenni sono precipitate un milione e mezzo di vittime dimenticate. Riconoscere il grande male significa anche togliere dall'oblio le vittime di tutti i genocidi e ridar loro voce. E non rendere vana l'ultima morte provocata da un odio antico, quella di Hrant Dink.
Oggi più che mai «bisogna far parlare i silenzi della storia, queste terribili pause sospensive, quando non dicono più nulla, e che sono appunto i suoi accenti più tragici» (Jules Michelet, L'heroisme de l'esprit).
Il processo è più che mai attuale. La Turchia, candidata ad entrare nella Ue, non ha mai affrontato la questione, anzi parlarne è espressamente vietato dall'articolo 301 del codice penale turco. È stato perseguitato perfino il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk e altri storici critici col governo. E chi si ostina a tenerne viva la memoria rischia la pelle, come dimostra il recente omicidio a Istanbul del giornalista di origine armena Hrant Dink, ucciso da un giovane ultrà nazionalista venuto - forse non è una coincidenza - dalla stessa città dove venne assassinato don Andrea Santoro. La condanna dell'omicidio da parte dell'opinione pubblica e delle autorità è stata unanime, ai funerali di Dink ha partecipato la nazione intera. Ma il termine «genocidio» riferito al popolo armeno rimane un tabù sul Bosforo.
Tornia mo nell'aula del Tribunale di Torino. Come ci si è arrivati? Davanti ai magistrati, come detto, compariranno l'Unione armeni d'Italia, la fondazione «Serapian» e una rappresentanza degli 82 cittadini italiani di origine armena che chiedono in sostanza una riparazione culturale. Sostengono che passare sotto silenzio il genocidio della loro gente, sulla cui memoria si è costruita un'identità collettiva, equivale a negare l'esistenza di questa comunità. Dall'altra parte l'editoriale L'Espresso, editore de La Repubblica, la Utet, la quale realizzò nel 2005 la collana «La storia» per conto del quotidiano edito da Carlo De Benedetti, e De Agostini. Nel capitolo che parla del Medio Oriente tra il 1915 e il 1917 non v'è traccia del genocidio. Secondo gli armeni, il testo accoglie solo le tesi e le menzogne diffuse dalla propaganda turca e basate su due capisaldi: i morti non furono più di trecentomila e lo sterminio non venne pianificato. Il volume, che sintetizza le pagine dello studioso negazionista americano Stanford Shaw, sostiene infatti che decine di migliaia di persone morirono di stenti durante la deportazione, vittime di circostanze tragiche e non di un disegno preciso. Certo, si ammette che, al tramonto dell'Impero ottomano i Turchi, guidati dai nazionalisti, vollero impadronirsi delle terre armene per creare un grande Stato turcofono fino al Caucaso. Perciò attuarono politiche ostili alle minoranze cristiane. Ma, nel 1915, secondo la ricostruzione della «Storia», parte degli armeni si alleò con i russi e questo provocò l'escalation delle deportazioni dei «traditori». Insomma, offre una serie di giustificazioni del massacro che però non viene definito genocidio. Nessun accenno a interpretazioni diverse.
In Europa non è consentito - giustamente - mettere in discussione l'Olocausto. I tentativi revisionistici, da ultimo quello operato dal presidente iraniano Ahmadinejad, vengono accolti con disprezzo. Riteniamo come minimo poco attendibili gl i accademici che minimizzano il numero di ebrei morti nei lager o che negano l'esistenza dei campi. Allora perché usare un metro diverso con gli armeni? Anche se la mattanza è stata compiuta dai carnefici con mezzi diversi rispetto all'Olocausto, la sostanza non cambia: è sempre genocidio.
Il giudice non è uno storico. Da una parte si troverà di fronte le ragioni di chi chiede il rispetto della memoria e dell'identità. Viceversa, gli editori oppongono il diritto più classico dell'Occidente, la libertà illimitata di espressione. Più discutibile l'altra argomentazione: in sostanza una collana divulgativa non è obbligata ad adottare lo stesso rigore di un testo storiografico. Insomma, il grande pubblico che paga un libro pochi euro si deve accontentare delle mezze verità.
La sentenza potrebbe essere rivoluzionaria. Infatti la corte deve stabilire dove finisce la libertà di espressione individuale. Il magistrato dovrà chiarire se un intellettuale in Italia può dire ciò che vuole arrivando a negare la verità dei fatti. In Francia, nel 1993, in una causa analoga contro lo studioso Bernard Lewis divenuto negazionista, la Corte diede ragione agli armeni affermando che la libertà di parola e pensiero dello storico non può prescindere dagli accadimenti e dal metodo scientifico perché può ledere la dignità altrui. I transalpini addirittura hanno approvato una legge che vieta di negare l'Olocausto e il Metz Yeghern.
La Chiesa cattolica è sempre stata accanto agli armeni. Papa Benedetto XV, durante la Prima guerra mondiale, fu l'unico a levare la sua voce in difesa di quel popolo. Nel 2001 Giovanni Paolo II si recò in Armenia e a Erevan, la capitale, a pregare per i morti del genocidio. Ma altri elementi indicano un cambiamento di clima. L'Occidente, che tacque a lungo perché vedeva nella Turchia un baluardo contro il neonato colosso sovietico, ha scelto da che parte stare da oltre vent'anni. La commissione per i diritti umani dell'Onu ha infatti riconosciuto il genocidio de l popolo armeno. Sulla stessa linea il Parlamento europeo, che ha incluso la questione tra quelle che Ankara deve mettere in agenda se vuole aderire alla Ue. I Parlamenti di molti Stati, incluso il nostro e quello francese, hanno riconosciuto il genocidio. Così come molti consigli regionali e i consigli comunali delle maggiori città italiane. Aspettiamo il verdetto della giustizia italiana cui, in attesa di poter affermare la verità sui libri, gli armeni hanno fatto ricorso per colmare un buco nel quale da decenni sono precipitate un milione e mezzo di vittime dimenticate. Riconoscere il grande male significa anche togliere dall'oblio le vittime di tutti i genocidi e ridar loro voce. E non rendere vana l'ultima morte provocata da un odio antico, quella di Hrant Dink.
Oggi più che mai «bisogna far parlare i silenzi della storia, queste terribili pause sospensive, quando non dicono più nulla, e che sono appunto i suoi accenti più tragici» (Jules Michelet, L'heroisme de l'esprit).
«Avvenire» del 30 gennaio 2007
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