di Mario Santagostini
Circola la voce che studenti applicati e meno applicati vorrebbero dedicare ore di didattica e di studio al cinese piuttosto che al latino: meglio tratti e ideogrammi che declinazioni e verbi irregolari e consecutiones temporum, meglio Pechino subito che Roma una volta.
Qualche considerazione va fatta. La prima, che in verità si trascina da secoli e con scarsissime varianti, invita a praticare (anche forzosamente) il latino perché favorisce l’uso della testa e forma stili di pensiero. Non ha mai convinto del tutto, ma sopravvive. La seconda, certo ricca di fondamenti, recita più o meno così: senza una base di latino non si afferra che la superficie di quel gran segmento delle lingue planetarie composto da francese, spagnolo, portoghese, romeno, italiano ecc. E la competenza del parlante medio-contemporaneo non può fare a meno d’una bella discesa alle radici e alle Madri della sua lingua. Diversamente, quella competenza risulterà monca e basica. Ogni momento performativo, ogni atto di parola poggia su una memoria pregressa e deve incontrare il suo passato, ripercorrere la propria genesi, dare un po’ di luce al suo inconscio.
Tutto questo, tuttavia, non scoraggerà lo studente giovane e applicato a ribadire che la globalizzazione impone di imparare le lingue vive e vivissime, altro che scendere a radici e a madri e inconsci verbali. Non si può stare indietro. Quindi, riformiamo i canoni, aboliamo i privilegi di idiomi morti o agonizzanti, diamo il meritato spazio a cinese, giapponese, indiano. Che si parlano davvero quando si fanno scambi, transazioni e accordi economici. Schieriamoci, dunque, per le lingue della produttività contro quelle dell’ozio e degli archivi. Ma così ci si schiera soprattutto contro le lingue che, di fatto, in questo momento sembrano più deboli. E allora, dietro l’ingenua richiesta «meno latino e più cinese» viene il sospetto che si nasconda una inconsapevole volontà di resa, di cessione del territorio, di colonizzazione passiva. Perché, in fondo, insistere oggi con il latino significa anche curare, tramandare uno zoccolo culturale e mnestico durissimo. Quello che, in fondo, ha consentito all’Umanesimo di essere Umanesimo, all’Europa di essere Europa, al mondo di essere mondo.
Nessuna nostalgia per le culture blindate, per orizzonti di senso chiusi e serrati, ma in tempi globali concentrarsi sulla propria lingua significa stare bene nel pianeta, non perdersi. La mondializzazione mi spaventa se e solo se io ho paura (conscia, più spesso inconscia) di possedere una identità labile, debole, a rischio di scioglimento, dissolvimento. E di assimilazione. Niente, allora, mi incoraggia e mi garantisce meglio della certezza attorno alla mia lingua. E niente mi certifica quella certezza meglio di una conoscenza tosta attorno ai suoi fondamenti. Il buon globalista nostrano dovrebbe, non è un paradosso, studiarlo di più, il «suo» latino. Anche perché, raffrontato al cinese, è facile. Cinque declinazioni, tre coniugazioni non sono nulla in confronto ai circa 18mila (sui quasi 40mila del totale, credo) ideogrammi necessari a verbalizzare culture medie (i più semplici di un unico tratto, i più sofisticati con decine di tratti, dove per tratto si intende il segnino da riprodurre secondo una direzione fissa, secondo regole stabili, sennò il maestro riprende e bacchetta...). Da imparare a riconoscere, scrivere, pronunciare tonalmente. E poi combinare secondo una sintassi che solo in apparenza è lineare.
Proporrei, allora, una specie di stage. Che le ore dedicate in una qualsiasi scuola al latino vengano sostituite, per un semestre, da lezioni di cinese. Vere, mandarinesche. Alla fine, lo studente applicato avrà, al meglio, imparato cinquanta stentati, malscritti e malpronunciati ideogrammi, e saprà balbettare sao pao mao («cinque gatti piccoli»). Ecco, forse a quel punto desidererebbe tornare a declinare, coniugare. Magari passare a Cesare e Tacito. Rinviando entusiasmi orientalizzanti e mondializzanti a future, più mirate fatiche.
Qualche considerazione va fatta. La prima, che in verità si trascina da secoli e con scarsissime varianti, invita a praticare (anche forzosamente) il latino perché favorisce l’uso della testa e forma stili di pensiero. Non ha mai convinto del tutto, ma sopravvive. La seconda, certo ricca di fondamenti, recita più o meno così: senza una base di latino non si afferra che la superficie di quel gran segmento delle lingue planetarie composto da francese, spagnolo, portoghese, romeno, italiano ecc. E la competenza del parlante medio-contemporaneo non può fare a meno d’una bella discesa alle radici e alle Madri della sua lingua. Diversamente, quella competenza risulterà monca e basica. Ogni momento performativo, ogni atto di parola poggia su una memoria pregressa e deve incontrare il suo passato, ripercorrere la propria genesi, dare un po’ di luce al suo inconscio.
Tutto questo, tuttavia, non scoraggerà lo studente giovane e applicato a ribadire che la globalizzazione impone di imparare le lingue vive e vivissime, altro che scendere a radici e a madri e inconsci verbali. Non si può stare indietro. Quindi, riformiamo i canoni, aboliamo i privilegi di idiomi morti o agonizzanti, diamo il meritato spazio a cinese, giapponese, indiano. Che si parlano davvero quando si fanno scambi, transazioni e accordi economici. Schieriamoci, dunque, per le lingue della produttività contro quelle dell’ozio e degli archivi. Ma così ci si schiera soprattutto contro le lingue che, di fatto, in questo momento sembrano più deboli. E allora, dietro l’ingenua richiesta «meno latino e più cinese» viene il sospetto che si nasconda una inconsapevole volontà di resa, di cessione del territorio, di colonizzazione passiva. Perché, in fondo, insistere oggi con il latino significa anche curare, tramandare uno zoccolo culturale e mnestico durissimo. Quello che, in fondo, ha consentito all’Umanesimo di essere Umanesimo, all’Europa di essere Europa, al mondo di essere mondo.
Nessuna nostalgia per le culture blindate, per orizzonti di senso chiusi e serrati, ma in tempi globali concentrarsi sulla propria lingua significa stare bene nel pianeta, non perdersi. La mondializzazione mi spaventa se e solo se io ho paura (conscia, più spesso inconscia) di possedere una identità labile, debole, a rischio di scioglimento, dissolvimento. E di assimilazione. Niente, allora, mi incoraggia e mi garantisce meglio della certezza attorno alla mia lingua. E niente mi certifica quella certezza meglio di una conoscenza tosta attorno ai suoi fondamenti. Il buon globalista nostrano dovrebbe, non è un paradosso, studiarlo di più, il «suo» latino. Anche perché, raffrontato al cinese, è facile. Cinque declinazioni, tre coniugazioni non sono nulla in confronto ai circa 18mila (sui quasi 40mila del totale, credo) ideogrammi necessari a verbalizzare culture medie (i più semplici di un unico tratto, i più sofisticati con decine di tratti, dove per tratto si intende il segnino da riprodurre secondo una direzione fissa, secondo regole stabili, sennò il maestro riprende e bacchetta...). Da imparare a riconoscere, scrivere, pronunciare tonalmente. E poi combinare secondo una sintassi che solo in apparenza è lineare.
Proporrei, allora, una specie di stage. Che le ore dedicate in una qualsiasi scuola al latino vengano sostituite, per un semestre, da lezioni di cinese. Vere, mandarinesche. Alla fine, lo studente applicato avrà, al meglio, imparato cinquanta stentati, malscritti e malpronunciati ideogrammi, e saprà balbettare sao pao mao («cinque gatti piccoli»). Ecco, forse a quel punto desidererebbe tornare a declinare, coniugare. Magari passare a Cesare e Tacito. Rinviando entusiasmi orientalizzanti e mondializzanti a future, più mirate fatiche.
«Il Giornale» del 14 gennaio 2007
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