Il caso
di Lorenzo Fazzini
«Solo più tardi ho saputo che la maggior parte di coloro che transitavano dal mio ufficio finivano i loro giorni nel S-21 (il famigerato lager di Phon Phem, ndr)». Ordinarietà di un genocidio. Il più sanguinoso di tutta la storia. Un terzo della popolazione cambogiana fu sterminato nell’arco di soli 4 anni, da quel 17 aprile 1975 quando le truppe di Pol Pot conquistarono il potere in quella che fu celebrata (purtroppo anche in Occidente) come la Kampuchea democratica, "paradiso" proletario per generazioni di intellettuali "democratici". Un milione e mezzo di persone, su poco più di 4 milioni di abitanti, sacrificate sull’altare di nozioni come "lotta di classe", "dittatura del proletariato" e altri diktat di marca marxista-leninista.
Ora, per la prima volta, la genesi e la "normalità" del genocidio cambogiano è descritto nel suo formarsi, nel suo accrescere e nel suo svolgere da una voce interna. A farlo è Suong Sikoeun, intellettuale asiatico che militò nelle forze khmer, anzi fu il "megafono" della propaganda di Pol Pot quando nel 1977 al ministero degli Affari Esteri - denominato B-1, in stretto linguaggio burocratico-comunista - fu incaricato della sezione "stampa", precipuamente dell’Agence Kampuchéa d’Information. Fu così, en passant, che Suong - che ha da poco pubblicato in Francia le sue poderose memorie, Itinéraire d’un intellectuel khmer rouge (Cerf, pp. 540, euro 35) - ebbe a che fare con Oriana Fallaci, la celebre inviata italiana, e Tiziano Terzani, la prima "insistente" nel cercare un’intervista con Ieng Sary, numero due del regime; il secondo autore di una memorabile intervista allo stesso per il settimanale L’Espresso. Nella quale lo stesso Ieng - nota bene: il mattatoio ordito da Pol Pot per "purificare" il popolo da tutti gli elementi borghesi era già in atto - qualificava "l’esperienza rivoluzionaria cambogiana" come "senza precedenti".
Ma torniamo a Suong e al suo itinerario all’interno del comunismo orientale. L’apprendistato di salsa marxista avviene per lui, come per altri, a Parigi, santuario degli studenti cambogiani, dove una serie di insegnanti universitari introducono quella che domani sarà un domani l’elite dello sterminio asiatico ai concetti della Rivoluzione del 1789 coniugati all’esperienza comunista. Confessa Suong: «Per quel che mi riguarda, vi è stato un lento processo che risale agli anni ’50 in cui, mentre ero alle superiori, mi sono esaltato per la Rivoluzione francese di cui feci miei gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità.
Questa influenza è stata rafforzata dal mio arrivo in Francia per l’università. Nel corso degli anni mi sono gettato a peso morto nelle attività e nei dibattiti politici, attraverso riflessioni personali approfondite, si è formato a poco a poco nel mio spirito un amalgama di concetti che mi ha condotto alla convinzione che solo una rivoluzione violenta, condotta per un manipolo di militanti devoti e risoluti, intimamente legati alle masse, sotto la direzione del Partito marxista-leninista, potesse mettere un termine ai mali di cui soffriva il mio Paese e il mio popolo: dominazione straniera, oppressione feudale e ingiustizia sociale». Ancora: «Ho letto con avidità tutto quello che riguardava sulla Rivoluzione francese, con preferenza per i giacobini e il suo capo, Robespierre, che era il mio eroe e il mio idolo. Mi sono convinto all’idea di una trasformazione della società con il metodo rivoluzionario e la necessità di una dittatura proletaria».
Suong dà così ragione direttamente al compianto cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger il quale nel suo libro-intervista (La scelta di Dio, Longanesi) indicava nel mix Rivoluzione del ’89-marxismo - di cui era imbevuta una certa cultura francese del Novecento - la responsabilità di aver "armato" la pistola del genocidio cambogiano: «Abbiamo saputo più tardi che un futuro braccio destro di Pol Pot faceva parte di uno dei gruppi estremisti dell’Ecole Normale di Parigi», attivi durante il ’68 francese.
Non mancano, nelle pagine di Suong, racconti di fatti e curiosità quotidiane in salsa polpotiana: negli uffici dei ministeri non si potevano usare i ventilatori anti-caldo, "pratica borghese", sebbene ci fossero tutti gli strumenti del caso; la famiglia veniva "rieducata", i genitori perdevano il diritto di educazione verso i figli (terribile l’aneddoto per cui la seconda figlia di Suong, vedendo il padre insieme al fratello, indica a questo la presenza "di suo padre", distanziandosi così dal genitore secondo le direttive del Partito); nessuna possibilità di celebrare delle feste, addirittura i matrimoni veniva combinati dai responsabili del Partito; e seguendo il celebre detto della Fattoria degli animali, anche nella Cambogia proletaria vi era qualcuno "più uguale degli altri": i membri del Comitato centrale del Partito ricevevano 3 pasti al giorno, i cittadini normali dovevano far meno della colazione.
Lo stesso Suong, al culmine della propria fede nel comunismo, non aveva esitato a pensare di dare un nome "sovietico" alla primogenita, chiamandola Néva in onore del fiume che attraversava Leningrado. Poi, però, quando l’Urss aveva cambiato atteggiamento verso l’esperienza rivoluzionaria cambogiana, anche la piccola mutò nome.
Eppure, una domanda serpeggia nel racconto di Suong, e talora affiora in superficie nel racconto dell’interessato: come è potuto succedere che una persona all’interno della stessa classe politica ai massimi livelli del regime non si sia potuta accorgere della strage, tanto massiccia, quanto invisibile, che Pol Pot metteva in atto? «Perché non ci siamo accorti di niente? È certo che il sistematico lavaggio del cervello combinato ad una psicosi della paura ci ha resi muti e ciechi. Da qui, a parlare di lassismo e complicità, il limite è aleatorio. Nessuno, tra di noi, ha avuto il coraggio di riconoscerlo».
Eppure qualche avvisaglia un politico ed esperto come Suong (che ha girato il mondo, in nome della rivoluzione perfetta alla Pol Pot) poteva averlo. Ma, è lui ad ammetterlo, «ho preferito chiudere orecchi e occhi». Come quando, nel 1977 un contrattempo durante un viaggio con gli ambasciatori di Thailandia e Svezia lo costringe a fermarsi per strada. La delegazione si vide avvicinata da una bimbetta malnutrita che chiedeva di esser portata a vivere a Phnom Penh. «Per convincerci iniziò a raccontare la vita che faceva nella cooperativa locale. Con un lavoro molto duro e un solo pasto di riso al giorno, non le era possibile sopravvivere. E lei non ci poteva mentire visto il suo aspetto di malnutrizione avanzata e di grande malessere fisico». Ma si sa, l’ideologia rende ciechi anche di fronte all’evidenza. E allora a Suong non resta che ammettere: «La Rivoluzione è morta. Abbasso la Rivoluzione!».
Ora, per la prima volta, la genesi e la "normalità" del genocidio cambogiano è descritto nel suo formarsi, nel suo accrescere e nel suo svolgere da una voce interna. A farlo è Suong Sikoeun, intellettuale asiatico che militò nelle forze khmer, anzi fu il "megafono" della propaganda di Pol Pot quando nel 1977 al ministero degli Affari Esteri - denominato B-1, in stretto linguaggio burocratico-comunista - fu incaricato della sezione "stampa", precipuamente dell’Agence Kampuchéa d’Information. Fu così, en passant, che Suong - che ha da poco pubblicato in Francia le sue poderose memorie, Itinéraire d’un intellectuel khmer rouge (Cerf, pp. 540, euro 35) - ebbe a che fare con Oriana Fallaci, la celebre inviata italiana, e Tiziano Terzani, la prima "insistente" nel cercare un’intervista con Ieng Sary, numero due del regime; il secondo autore di una memorabile intervista allo stesso per il settimanale L’Espresso. Nella quale lo stesso Ieng - nota bene: il mattatoio ordito da Pol Pot per "purificare" il popolo da tutti gli elementi borghesi era già in atto - qualificava "l’esperienza rivoluzionaria cambogiana" come "senza precedenti".
Ma torniamo a Suong e al suo itinerario all’interno del comunismo orientale. L’apprendistato di salsa marxista avviene per lui, come per altri, a Parigi, santuario degli studenti cambogiani, dove una serie di insegnanti universitari introducono quella che domani sarà un domani l’elite dello sterminio asiatico ai concetti della Rivoluzione del 1789 coniugati all’esperienza comunista. Confessa Suong: «Per quel che mi riguarda, vi è stato un lento processo che risale agli anni ’50 in cui, mentre ero alle superiori, mi sono esaltato per la Rivoluzione francese di cui feci miei gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità.
Questa influenza è stata rafforzata dal mio arrivo in Francia per l’università. Nel corso degli anni mi sono gettato a peso morto nelle attività e nei dibattiti politici, attraverso riflessioni personali approfondite, si è formato a poco a poco nel mio spirito un amalgama di concetti che mi ha condotto alla convinzione che solo una rivoluzione violenta, condotta per un manipolo di militanti devoti e risoluti, intimamente legati alle masse, sotto la direzione del Partito marxista-leninista, potesse mettere un termine ai mali di cui soffriva il mio Paese e il mio popolo: dominazione straniera, oppressione feudale e ingiustizia sociale». Ancora: «Ho letto con avidità tutto quello che riguardava sulla Rivoluzione francese, con preferenza per i giacobini e il suo capo, Robespierre, che era il mio eroe e il mio idolo. Mi sono convinto all’idea di una trasformazione della società con il metodo rivoluzionario e la necessità di una dittatura proletaria».
Suong dà così ragione direttamente al compianto cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger il quale nel suo libro-intervista (La scelta di Dio, Longanesi) indicava nel mix Rivoluzione del ’89-marxismo - di cui era imbevuta una certa cultura francese del Novecento - la responsabilità di aver "armato" la pistola del genocidio cambogiano: «Abbiamo saputo più tardi che un futuro braccio destro di Pol Pot faceva parte di uno dei gruppi estremisti dell’Ecole Normale di Parigi», attivi durante il ’68 francese.
Non mancano, nelle pagine di Suong, racconti di fatti e curiosità quotidiane in salsa polpotiana: negli uffici dei ministeri non si potevano usare i ventilatori anti-caldo, "pratica borghese", sebbene ci fossero tutti gli strumenti del caso; la famiglia veniva "rieducata", i genitori perdevano il diritto di educazione verso i figli (terribile l’aneddoto per cui la seconda figlia di Suong, vedendo il padre insieme al fratello, indica a questo la presenza "di suo padre", distanziandosi così dal genitore secondo le direttive del Partito); nessuna possibilità di celebrare delle feste, addirittura i matrimoni veniva combinati dai responsabili del Partito; e seguendo il celebre detto della Fattoria degli animali, anche nella Cambogia proletaria vi era qualcuno "più uguale degli altri": i membri del Comitato centrale del Partito ricevevano 3 pasti al giorno, i cittadini normali dovevano far meno della colazione.
Lo stesso Suong, al culmine della propria fede nel comunismo, non aveva esitato a pensare di dare un nome "sovietico" alla primogenita, chiamandola Néva in onore del fiume che attraversava Leningrado. Poi, però, quando l’Urss aveva cambiato atteggiamento verso l’esperienza rivoluzionaria cambogiana, anche la piccola mutò nome.
Eppure, una domanda serpeggia nel racconto di Suong, e talora affiora in superficie nel racconto dell’interessato: come è potuto succedere che una persona all’interno della stessa classe politica ai massimi livelli del regime non si sia potuta accorgere della strage, tanto massiccia, quanto invisibile, che Pol Pot metteva in atto? «Perché non ci siamo accorti di niente? È certo che il sistematico lavaggio del cervello combinato ad una psicosi della paura ci ha resi muti e ciechi. Da qui, a parlare di lassismo e complicità, il limite è aleatorio. Nessuno, tra di noi, ha avuto il coraggio di riconoscerlo».
Eppure qualche avvisaglia un politico ed esperto come Suong (che ha girato il mondo, in nome della rivoluzione perfetta alla Pol Pot) poteva averlo. Ma, è lui ad ammetterlo, «ho preferito chiudere orecchi e occhi». Come quando, nel 1977 un contrattempo durante un viaggio con gli ambasciatori di Thailandia e Svezia lo costringe a fermarsi per strada. La delegazione si vide avvicinata da una bimbetta malnutrita che chiedeva di esser portata a vivere a Phnom Penh. «Per convincerci iniziò a raccontare la vita che faceva nella cooperativa locale. Con un lavoro molto duro e un solo pasto di riso al giorno, non le era possibile sopravvivere. E lei non ci poteva mentire visto il suo aspetto di malnutrizione avanzata e di grande malessere fisico». Ma si sa, l’ideologia rende ciechi anche di fronte all’evidenza. E allora a Suong non resta che ammettere: «La Rivoluzione è morta. Abbasso la Rivoluzione!».
«Avvenire» del 10 luglio 2014
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