L'inchiesta
di Roberto Festorazzi
E' il 26 o il 27 ottobre 1943, a Queyrières località Raffy, sperduto villaggio dell’Alta Loira, situato a 1.200 metri di altitudine. Quattro ospiti del locale Maquis, unità combattente della Resistenza francese a egemonia comunista, vengono prelevati a forza dalla fattoria in cui alloggiano e, con il pretesto del trasferimento in altro luogo, fatti allontanare e condotti presumibilmente poco distante, per essere fucilati.
Ho scritto «ospiti», ma sarebbe meglio definirli prigionieri, in quanto erano nelle mani dei «franchi tiratori partigiani» che li avrebbero eliminati per le spicce. Eppure non erano spie, né agenti nemici nazisti o loro alleati. Liberati dai partigiani comunisti dalla prigione di Le Puy agli inizi di ottobre, durante una maxi-evasione alla quale collaborarono i servizi segreti britannici, i quattro erano parte di un vasto gruppo di una sessantina di combattenti antifascisti. Solo che non erano politicamente immacolati come gli altri: erano trotzkisti; e su di loro calò la mannaia della vendetta comunista.
L’episodio, a lungo occultato in una coltre di bugie e di silenzi eloquenti, va ricordato anche perché nel quartetto c’era un italiano con una storia particolare: Pietro Tresso, alias «Blasco», niente meno che uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia-organo della Terza Internazionale, da cui venne espulso con l’accusa di frazionismo e di trotzkismo nel clima avvelenato che precedette e preparò le purghe staliniane nel 1930.
Tresso, nato a Schio nel 1893, operaio sarto, è stato cancellato dall’album di famiglia del comunismo nostrano insieme a tanti dirigenti e co-fondatori del partito; la lista dei radiati, per limitarsi al solo periodo 1927-31, è impressionante: si va da Nicola Bombacci al primo segretario Amedeo Bordiga, dal «destro» buchariniano Angelo Tasca a Ignazio Silone e Antonio Graziadei, da bordighiani storici come Luigi Repossi, Onorato Damen, Bruno Fortichiari, fino ai tre antistalinisti cacciati nel 1930: Tresso, Alfonso Leonetti e Paolo Ravazzoli. Per comprendere in quale atmosfera si compissero queste violente epurazioni, basti ricordare il caldo "elogio" che del suo predecessore alla guida del partito tessé Palmiro Togliatti, nel 1937: «Bordiga vive oggi in Italia come una canaglia trotzkista, protetto dalla polizia e dai fascisti, odiato dagli operai come deve essere odiato un traditore»...
Pietro Tresso, cognato di Silone, era stato anch’egli incluso nella lista delle «canaglie», benché fosse stato un eminente dirigente del partito nato a Livorno nel 1921, e con una caratura internazionale, perché aveva preso parte in qualità di delegato al quarto congresso del Comintern, che si tenne a Mosca nel novembre 1922. Gramsci ne aveva talmente stima da cooptarlo negli organismi dirigenti del Pci. Proprio subendo l’influenza carismatica del leader sardo, nel 1924 Tresso abbandonò il suo riferimento politico e morale: Bordiga. «Blasco» fu un dirigente appassionato e intransigente, specializzato nel lavoro illegale. Fu parte determinante del primo tentativo di costituire un Centro interno clandestino del Pci in Italia, dopo che, verso la fine del 1926, il regime fascista cancellò dalla vita pubblica multipartitismo e pluralismo.
Ma il Centro interno, sotto la direzione di Tresso, Leonetti, Ravazzoli e Camilla Ravera, fu dapprima costretto a «sconfinare» in Svizzera, e infine, con la decimazione dei quadri e dei militanti arrestati dalla polizia fascista, dovette ammettere il fallimento. Togliatti, che intanto a Parigi aveva costituito il Centro estero del partito, in un processo accusatorio interno fece a pezzi il lavoro di Ravera e degli altri, con un crescendo di toni ingenerosi che fu percepito come un pessimo segnale del cambiamento dei costumi dentro il Pci: dallo stile fraterno di Gramsci, al cinico autoritarismo del Migliore. L’espulsione di Trotzki dal partito bolscevico ebbe, appunto, una proiezione italiana nella lotta intrapresa da Togliatti contro tutti i dirigenti che pretendevano di discutere la linea del partito, anziché approvarla a scatola chiusa.
Tra questi vi era certamente Tresso, rimasto in Italia a organizzare la presenza del Pci sfidando la polizia del regime. Dopo la sua espulsione dal partito, dovette tornare a fare il sarto a Parigi. Aderì al Psi e si legò alle posizioni trozkiste che, da varie angolature e con diverse sfumature, miravano alla costituzione di una Quarta internazionale, anti-stalinista. Arrestato nel giugno 1942 dalla polizia francese, «Blasco» finì come abbiamo raccontato.
Ma chi fu a decretare la sua morte? La questione è alquanto complicata, per il muro di omertà eretto attorno a questo omicidio eccellente. Il responsabile politico del Maquis in cui venne assassinato era un personaggio inquietante: Giovanni Sosso, alias capitano Jean, ex imbianchino nato in Italia, che probabilmente lavorava per i servizi segreti sovietici. Questo anticipa una considerazione, comunemente accettata dai pochi storici che hanno indagato sull’episodio: e cioè che l’ordine di sopprimere Tresso si radicasse nella collaborazione tra più soggetti del comunismo internazionale.
Alfonso Leonetti, uno dei tre dirigenti cacciati dal Pci nel 1930, raccolse un dossier che avrebbe contenuto prove tali da inchiodare addirittura Togliatti alle proprie responsabilità in questa oscura vicenda. Solo che Leonetti, nel frattempo riammesso nel Pci nel 1962, si comportò ingenuamente nell’affidare tale materiale a persone che credeva fidate. Temeva l’uso politico improprio che si sarebbe potuto fare di quelle carte, d’accordo, ma la consegna di prudenza non implicava la volontà di sotterrarle in qualche archivio segreto.
Nel dicembre del 1984, poco prima di morire, l’ex storico dirigente del partito ricevette in ospedale una strana visita di due emissari della segreteria del Pci. I personaggi gli domandarono il consenso alla distruzione di un biglietto, o di una lettera, di Togliatti, che – se pubblicata – avrebbe scatenato l’inferno. Con le residue energie, Leonetti allontanò i due, apostrofandoli con l’appellativo di «corvi». Ma per diradare le nebbie ora occorrerebbe un atto di coraggio: chi sa, parli.
Ho scritto «ospiti», ma sarebbe meglio definirli prigionieri, in quanto erano nelle mani dei «franchi tiratori partigiani» che li avrebbero eliminati per le spicce. Eppure non erano spie, né agenti nemici nazisti o loro alleati. Liberati dai partigiani comunisti dalla prigione di Le Puy agli inizi di ottobre, durante una maxi-evasione alla quale collaborarono i servizi segreti britannici, i quattro erano parte di un vasto gruppo di una sessantina di combattenti antifascisti. Solo che non erano politicamente immacolati come gli altri: erano trotzkisti; e su di loro calò la mannaia della vendetta comunista.
L’episodio, a lungo occultato in una coltre di bugie e di silenzi eloquenti, va ricordato anche perché nel quartetto c’era un italiano con una storia particolare: Pietro Tresso, alias «Blasco», niente meno che uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia-organo della Terza Internazionale, da cui venne espulso con l’accusa di frazionismo e di trotzkismo nel clima avvelenato che precedette e preparò le purghe staliniane nel 1930.
Tresso, nato a Schio nel 1893, operaio sarto, è stato cancellato dall’album di famiglia del comunismo nostrano insieme a tanti dirigenti e co-fondatori del partito; la lista dei radiati, per limitarsi al solo periodo 1927-31, è impressionante: si va da Nicola Bombacci al primo segretario Amedeo Bordiga, dal «destro» buchariniano Angelo Tasca a Ignazio Silone e Antonio Graziadei, da bordighiani storici come Luigi Repossi, Onorato Damen, Bruno Fortichiari, fino ai tre antistalinisti cacciati nel 1930: Tresso, Alfonso Leonetti e Paolo Ravazzoli. Per comprendere in quale atmosfera si compissero queste violente epurazioni, basti ricordare il caldo "elogio" che del suo predecessore alla guida del partito tessé Palmiro Togliatti, nel 1937: «Bordiga vive oggi in Italia come una canaglia trotzkista, protetto dalla polizia e dai fascisti, odiato dagli operai come deve essere odiato un traditore»...
Pietro Tresso, cognato di Silone, era stato anch’egli incluso nella lista delle «canaglie», benché fosse stato un eminente dirigente del partito nato a Livorno nel 1921, e con una caratura internazionale, perché aveva preso parte in qualità di delegato al quarto congresso del Comintern, che si tenne a Mosca nel novembre 1922. Gramsci ne aveva talmente stima da cooptarlo negli organismi dirigenti del Pci. Proprio subendo l’influenza carismatica del leader sardo, nel 1924 Tresso abbandonò il suo riferimento politico e morale: Bordiga. «Blasco» fu un dirigente appassionato e intransigente, specializzato nel lavoro illegale. Fu parte determinante del primo tentativo di costituire un Centro interno clandestino del Pci in Italia, dopo che, verso la fine del 1926, il regime fascista cancellò dalla vita pubblica multipartitismo e pluralismo.
Ma il Centro interno, sotto la direzione di Tresso, Leonetti, Ravazzoli e Camilla Ravera, fu dapprima costretto a «sconfinare» in Svizzera, e infine, con la decimazione dei quadri e dei militanti arrestati dalla polizia fascista, dovette ammettere il fallimento. Togliatti, che intanto a Parigi aveva costituito il Centro estero del partito, in un processo accusatorio interno fece a pezzi il lavoro di Ravera e degli altri, con un crescendo di toni ingenerosi che fu percepito come un pessimo segnale del cambiamento dei costumi dentro il Pci: dallo stile fraterno di Gramsci, al cinico autoritarismo del Migliore. L’espulsione di Trotzki dal partito bolscevico ebbe, appunto, una proiezione italiana nella lotta intrapresa da Togliatti contro tutti i dirigenti che pretendevano di discutere la linea del partito, anziché approvarla a scatola chiusa.
Tra questi vi era certamente Tresso, rimasto in Italia a organizzare la presenza del Pci sfidando la polizia del regime. Dopo la sua espulsione dal partito, dovette tornare a fare il sarto a Parigi. Aderì al Psi e si legò alle posizioni trozkiste che, da varie angolature e con diverse sfumature, miravano alla costituzione di una Quarta internazionale, anti-stalinista. Arrestato nel giugno 1942 dalla polizia francese, «Blasco» finì come abbiamo raccontato.
Ma chi fu a decretare la sua morte? La questione è alquanto complicata, per il muro di omertà eretto attorno a questo omicidio eccellente. Il responsabile politico del Maquis in cui venne assassinato era un personaggio inquietante: Giovanni Sosso, alias capitano Jean, ex imbianchino nato in Italia, che probabilmente lavorava per i servizi segreti sovietici. Questo anticipa una considerazione, comunemente accettata dai pochi storici che hanno indagato sull’episodio: e cioè che l’ordine di sopprimere Tresso si radicasse nella collaborazione tra più soggetti del comunismo internazionale.
Alfonso Leonetti, uno dei tre dirigenti cacciati dal Pci nel 1930, raccolse un dossier che avrebbe contenuto prove tali da inchiodare addirittura Togliatti alle proprie responsabilità in questa oscura vicenda. Solo che Leonetti, nel frattempo riammesso nel Pci nel 1962, si comportò ingenuamente nell’affidare tale materiale a persone che credeva fidate. Temeva l’uso politico improprio che si sarebbe potuto fare di quelle carte, d’accordo, ma la consegna di prudenza non implicava la volontà di sotterrarle in qualche archivio segreto.
Nel dicembre del 1984, poco prima di morire, l’ex storico dirigente del partito ricevette in ospedale una strana visita di due emissari della segreteria del Pci. I personaggi gli domandarono il consenso alla distruzione di un biglietto, o di una lettera, di Togliatti, che – se pubblicata – avrebbe scatenato l’inferno. Con le residue energie, Leonetti allontanò i due, apostrofandoli con l’appellativo di «corvi». Ma per diradare le nebbie ora occorrerebbe un atto di coraggio: chi sa, parli.
«Avvenire» dell'8 luglio 2014
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