Dal braccio di ferro con gli editori al diritto all'oblio passando per i rischi legati allo strapotere commerciale fino alla recente decisione del Garante della privacy italiano sui dati degli utenti: il gigante di Mountain View sta forse affrontando il periodo più complicato della sua campagna nel Vecchio Continente. Ecco tutti i punti sul tavolo
di Simone Cosimi
La decisione del Garante della privacy italiano sull'autorizzazione degli utenti alla loro profilazione commerciale è solo l'ultimo dei fronti aperti fra Google e le autorità europee. L'intelaiatura legislativa del Vecchio Continente - fatta di un ping pong continuo fra ordinamenti nazionali e comunitario - e la guardia sempre alta su riservatezza e concorrenza hanno condotto nel corso della breve ma intensa esistenza del colosso delle ricerche, fondato appena 16 anni fa, a una serie di scontri. Alcuni dei quali - su tutti quelli sul diritto d'autore e sul regime fiscale - hanno a tratti assunto tinte campali e una validità generale nel rapporto fra istituzioni locali, mondo del web e Unione Europea.
Il copyright. Nel nostro Paese un primo timido accordo si è trovato con il lancio di Google Play Edicola, negozio online e applicazione di Big G dove trovare e leggere gratis o su abbonamento quotidiani, periodici e blog, pubblicazioni del Gruppo Editoriale L'Espresso incluse. Ma i contrasti più sanguinosi ruotano intorno a Google News, la piattaforma da un miliardo di lettori al giorno che aggrega i contenuti dal mare magnum informativo della rete per temi e argomenti. Rilanciando direttamente agli articoli selezionati - ammesso che vengano letti - ed evitando così ogni altro passaggio sul sito della testata. È ormai il palinsesto di ciò che c'è da sapere in un certo momento in 75 Paesi e 40 lingue del mondo. Il problema è stato risolto l'anno scorso in Francia e Germania tramite l'imposizione del pagamento di una tassa per la pubblicazione di contenuti editoriali di altrui proprietà. Una sorta di compenso forfettario destinato all'editoria. Nel primo caso si tratta per esempio di un fondo da 60 milioni di euro a vantaggio di 150 portali che possono anche sfruttare gli strumenti pubblicitari di Mountain View per una raccolta sempre più complicata. In Belgio un accordo simile era stato siglato già nel 2012.
Il diritto all'oblio. Di recente ci è arrivato anche Bing, il motore di ricerca di Microsoft. Ma la sentenza della Corte di giustizia europea dello scorso 13 maggio ha imposto anzitutto a Google, da cui passa oltre il 90% delle ricerche continentali, la predisposizione di uno strumento - poi concretizzatosi in un modulo online da raffinare nei prossimi mesi - per consentire a chi ne abbia diritto di richiedere la rimozione dai risultati delle ricerche delle pagine che lo riguardano. Questo perché i giudici del Lussemburgo hanno ritenuto che "il gestore di un motore di ricerca su internet è responsabile del trattamento effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi". E dunque debba approntare i mezzi per l'eventuale rimozione dei link, che tuttavia in questo caso rimangono visibili sul dominio statunitense Google.com. È la prima messa in pratica del cosiddetto diritto all'oblio, per togliere visibilità a pagine che ospitano contenuti ritenuti "inadeguati o non più pertinenti" e che tuttavia ha sollevato diversi grattacapi in termini di libertà di opinione e informazione. È capitato per esempio col britannico Guardian: diversi articoli giornalistici contenenti informazioni sgradite ai protagonisti citati sono scomparsi dall'indicizzazione del motore di ricerca. Nei primi mesi sarebbero arrivate oltre 70mila richieste e pare che l'Italia sia uno dei Paesi europei più attivi nelle domande.
Le tasse. Fra i primi Paesi ad affrontare la questione Web (o Google) Tax è stata, ormai due anni fa, la Gran Bretagna. In Italia il dibattito si è infiammato - per precipitare in un nulla di fatto, anzi in una mezza abrogazione a marzo col decreto Salva Roma - lo scorso autunno grazie alla proposta dell'onorevole Francesco Boccia (Pd): girava intorno all'obbligo di acquisto di beni e servizi online, cioè pubblicità, solo da titolari forniti di partita Iva italiana. Un provvedimento che in quei mesi trovò l'appoggio anche della Francia, che poi all'inizio di maggio ha inflitto una supersanzione fiscale da un miliardo di euro alla "sua" Google, e che potrebbe tornare sul tavolo nel corso del semestre italiano di presidenza europea. Il punto è che le branche nazionali delle big company del web registrano i ricavi nei mercati locali come frutto di servizi prestati a un'altra società di riferimento, spesso basata in un Paese con una tassazione più vantaggiosa. Meccanismi di elusione fiscale verso l'estero noti in gergo come "Double Irish" o "Dutch Sandwich". Amazon è in Lussemburgo, per esempio, e Google - come Facebook - in Irlanda. Il gioco, perfettamente legale, porta nelle casse dell'erario italiano pochi spiccioli rispetto alla potenza di fuoco e ai mastodontici ricavi dei gruppi. Google Italy nel 2013 ha denunciato un fatturato di 49 milioni di euro, con utili ante imposte di 3,6 milioni sui quali ha pagato 1,8 milioni di tasse.
L'abuso di posizione dominante. Si è saputo agli inizi di luglio che il prossimo commissario europeo per la concorrenza, e dunque la direzione generale che da quella carica dipende, potrebbe riaprire il dossier su Google. Nel mirino delle autorità di Bruxelles c'è infatti da anni la manipolazione dei risultati sul motore di ricerca. Modifiche che favorirebbero la visibilità dei suoi servizi a danno dei concorrenti. Lo scorso febbraio lo spagnolo Joaquín Almunia, commissario in scadenza a novembre, e Big G hanno firmato un accordo che ha salvato il colosso da una possibile maximulta in stile Microsoft dopo un'indagine durata tre anni. Nel patto, Mountain View ha accettato di concedere più spazio ai rivali fra i risultati delle sue ricerche. Si parla di pubblicità, ecommerce, servizi: se la vetrina più osservata del pianeta ne mette in mostra solo alcuni, è la tesi dei tanti ricorrenti, c'è un pachidermico problema di competizione. L'accordo ha tuttavia deluso le aspettative di molti, dagli editori ai player online. Un attacco durissimo è ad esempio arrivato lo scorso aprile da Mathias Döpfner, amministratore delegato del gruppo tedesco Axel Springer, che in una lettera aperta al presidente di Google Eric Schmidt, pubblicata sul quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha scritto che il modello di business di Google "in ambienti poco onorevoli si chiamerebbe estorsione". Adesso Bruxelles dice di voler tornare sulla questione - se ne saprà di più a settembre - e potrebbe addirittura aprire altri due fronti interni alla questione: uno su Android, il sistema operativo montato sull'80% dei dispositivi mobili del mondo (si indagherà sugli accordi con i produttori di smartphone e tablet) l'altro su YouTube, la piattaforma di videosharing, su pressione delle etichette musicali indipendenti. Probabile tuttavia che nulla si muova davvero fino alla nomina della nuova commissione Juncker, a novembre.
La privacy. È recentissimo il provvedimento prescrittivo dell'Autorità per la protezione dei dati personali italiana guidata da Antonello Soro. Secondo la decisione la profilazione di chi utilizza il motore di ricerca o gli infiniti altri servizi di Google - dalla posta elettronica alle mappe passando per i pagamenti - dovrà essere preventivamente autorizzata da ciascun interessato a seguito di un'informativa completa. Nella quale si dovrà inoltre indicare in maniera chiara che l'identikit di ogni utente viene realizzato e memorizzato, tramite mezzi come i cookie e il fingerprinting, a fini commerciali. Big G ha 18 mesi per mettere a punto uno strumento in grado di consentire questo filtro preventivo e anche di permettere agli utenti di richiedere la rimozione dai server di informazioni che li riguardino. Pratica che dovrà essere soddisfatta fra i due e i sei mesi, a seconda del servizio. Il documento, prodotto dopo un'azione congiunta con altre cinque autorità comunitarie, era partita l'anno scorso dopo che, nel marzo 2012, Google aveva unificato e modificato le sue policy sulla riservatezza dei dati personali.
Il copyright. Nel nostro Paese un primo timido accordo si è trovato con il lancio di Google Play Edicola, negozio online e applicazione di Big G dove trovare e leggere gratis o su abbonamento quotidiani, periodici e blog, pubblicazioni del Gruppo Editoriale L'Espresso incluse. Ma i contrasti più sanguinosi ruotano intorno a Google News, la piattaforma da un miliardo di lettori al giorno che aggrega i contenuti dal mare magnum informativo della rete per temi e argomenti. Rilanciando direttamente agli articoli selezionati - ammesso che vengano letti - ed evitando così ogni altro passaggio sul sito della testata. È ormai il palinsesto di ciò che c'è da sapere in un certo momento in 75 Paesi e 40 lingue del mondo. Il problema è stato risolto l'anno scorso in Francia e Germania tramite l'imposizione del pagamento di una tassa per la pubblicazione di contenuti editoriali di altrui proprietà. Una sorta di compenso forfettario destinato all'editoria. Nel primo caso si tratta per esempio di un fondo da 60 milioni di euro a vantaggio di 150 portali che possono anche sfruttare gli strumenti pubblicitari di Mountain View per una raccolta sempre più complicata. In Belgio un accordo simile era stato siglato già nel 2012.
Il diritto all'oblio. Di recente ci è arrivato anche Bing, il motore di ricerca di Microsoft. Ma la sentenza della Corte di giustizia europea dello scorso 13 maggio ha imposto anzitutto a Google, da cui passa oltre il 90% delle ricerche continentali, la predisposizione di uno strumento - poi concretizzatosi in un modulo online da raffinare nei prossimi mesi - per consentire a chi ne abbia diritto di richiedere la rimozione dai risultati delle ricerche delle pagine che lo riguardano. Questo perché i giudici del Lussemburgo hanno ritenuto che "il gestore di un motore di ricerca su internet è responsabile del trattamento effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi". E dunque debba approntare i mezzi per l'eventuale rimozione dei link, che tuttavia in questo caso rimangono visibili sul dominio statunitense Google.com. È la prima messa in pratica del cosiddetto diritto all'oblio, per togliere visibilità a pagine che ospitano contenuti ritenuti "inadeguati o non più pertinenti" e che tuttavia ha sollevato diversi grattacapi in termini di libertà di opinione e informazione. È capitato per esempio col britannico Guardian: diversi articoli giornalistici contenenti informazioni sgradite ai protagonisti citati sono scomparsi dall'indicizzazione del motore di ricerca. Nei primi mesi sarebbero arrivate oltre 70mila richieste e pare che l'Italia sia uno dei Paesi europei più attivi nelle domande.
Le tasse. Fra i primi Paesi ad affrontare la questione Web (o Google) Tax è stata, ormai due anni fa, la Gran Bretagna. In Italia il dibattito si è infiammato - per precipitare in un nulla di fatto, anzi in una mezza abrogazione a marzo col decreto Salva Roma - lo scorso autunno grazie alla proposta dell'onorevole Francesco Boccia (Pd): girava intorno all'obbligo di acquisto di beni e servizi online, cioè pubblicità, solo da titolari forniti di partita Iva italiana. Un provvedimento che in quei mesi trovò l'appoggio anche della Francia, che poi all'inizio di maggio ha inflitto una supersanzione fiscale da un miliardo di euro alla "sua" Google, e che potrebbe tornare sul tavolo nel corso del semestre italiano di presidenza europea. Il punto è che le branche nazionali delle big company del web registrano i ricavi nei mercati locali come frutto di servizi prestati a un'altra società di riferimento, spesso basata in un Paese con una tassazione più vantaggiosa. Meccanismi di elusione fiscale verso l'estero noti in gergo come "Double Irish" o "Dutch Sandwich". Amazon è in Lussemburgo, per esempio, e Google - come Facebook - in Irlanda. Il gioco, perfettamente legale, porta nelle casse dell'erario italiano pochi spiccioli rispetto alla potenza di fuoco e ai mastodontici ricavi dei gruppi. Google Italy nel 2013 ha denunciato un fatturato di 49 milioni di euro, con utili ante imposte di 3,6 milioni sui quali ha pagato 1,8 milioni di tasse.
L'abuso di posizione dominante. Si è saputo agli inizi di luglio che il prossimo commissario europeo per la concorrenza, e dunque la direzione generale che da quella carica dipende, potrebbe riaprire il dossier su Google. Nel mirino delle autorità di Bruxelles c'è infatti da anni la manipolazione dei risultati sul motore di ricerca. Modifiche che favorirebbero la visibilità dei suoi servizi a danno dei concorrenti. Lo scorso febbraio lo spagnolo Joaquín Almunia, commissario in scadenza a novembre, e Big G hanno firmato un accordo che ha salvato il colosso da una possibile maximulta in stile Microsoft dopo un'indagine durata tre anni. Nel patto, Mountain View ha accettato di concedere più spazio ai rivali fra i risultati delle sue ricerche. Si parla di pubblicità, ecommerce, servizi: se la vetrina più osservata del pianeta ne mette in mostra solo alcuni, è la tesi dei tanti ricorrenti, c'è un pachidermico problema di competizione. L'accordo ha tuttavia deluso le aspettative di molti, dagli editori ai player online. Un attacco durissimo è ad esempio arrivato lo scorso aprile da Mathias Döpfner, amministratore delegato del gruppo tedesco Axel Springer, che in una lettera aperta al presidente di Google Eric Schmidt, pubblicata sul quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha scritto che il modello di business di Google "in ambienti poco onorevoli si chiamerebbe estorsione". Adesso Bruxelles dice di voler tornare sulla questione - se ne saprà di più a settembre - e potrebbe addirittura aprire altri due fronti interni alla questione: uno su Android, il sistema operativo montato sull'80% dei dispositivi mobili del mondo (si indagherà sugli accordi con i produttori di smartphone e tablet) l'altro su YouTube, la piattaforma di videosharing, su pressione delle etichette musicali indipendenti. Probabile tuttavia che nulla si muova davvero fino alla nomina della nuova commissione Juncker, a novembre.
La privacy. È recentissimo il provvedimento prescrittivo dell'Autorità per la protezione dei dati personali italiana guidata da Antonello Soro. Secondo la decisione la profilazione di chi utilizza il motore di ricerca o gli infiniti altri servizi di Google - dalla posta elettronica alle mappe passando per i pagamenti - dovrà essere preventivamente autorizzata da ciascun interessato a seguito di un'informativa completa. Nella quale si dovrà inoltre indicare in maniera chiara che l'identikit di ogni utente viene realizzato e memorizzato, tramite mezzi come i cookie e il fingerprinting, a fini commerciali. Big G ha 18 mesi per mettere a punto uno strumento in grado di consentire questo filtro preventivo e anche di permettere agli utenti di richiedere la rimozione dai server di informazioni che li riguardino. Pratica che dovrà essere soddisfatta fra i due e i sei mesi, a seconda del servizio. Il documento, prodotto dopo un'azione congiunta con altre cinque autorità comunitarie, era partita l'anno scorso dopo che, nel marzo 2012, Google aveva unificato e modificato le sue policy sulla riservatezza dei dati personali.
«la Repubblica» del 24 luglio 2014
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