Storia
di Gerardo Padulo
«È antico canone di buona tattica che si debbano eliminare i nemici interni prima di affrontare quelli esterni» ebbe a scrivere il 25 settembre 1914 sulla rivista Rassegna contemporanea il duca Giovanni Antonio di Cesarò, deputato radicale e nipote di Sidney Sonnino, e, per caso, il giorno innanzi Benito Mussolini aveva scritto sull’Avanti! che «noi [socialisti] siamo il nemico interno». Nella logica del nemico interno è utile dare conto di alcuni articoli, ignorati dagli storici, che Mussolini scrisse tra il 26 settembre e il 2 ottobre 1914 sull’Avanti! e che sono pubblicati nel settimo volume dell’Opera omnia curato nel 1953 da Edoardo e Duilio Susmel.
Gli articoli sono intitolati Hervè promette…, La lavata di capo… e Pazienza o impotenza. In essi il direttore polemizza con la stampa democratica (La Gazzetta del popolo di Torino, Il Secolo di Milano, Il Giornale del mattino di Bologna e Il Messaggero di Roma, giornali a tutti noti come massonici) per dire sostanzialmente questo: i giornali democratici propongono alla pubblica opinione i socialisti francesi, che si sono schierati per la difesa della patria, esaltandoli come modello da seguire per i socialisti italiani.
Nel primo articolo Mussolini polemizza anche col socialista francese Hervè e sostiene: «Non è con questi sistemi» che si può «cattivare simpatie» alla causa della Francia. Se l’Italia vorrà Trento e Trieste «dovrà mettere in campo un esercito di almeno due milioni di uomini»; e, d’altra, parte, all’interno del movimento socialista, la tradizione garibaldina è «finita». «Garibaldi è morto – scrive Mussolini – e non ha avuto successori. Non poteva averne. Egli era unico nella storia. Il garibaldinismo odierno è una povera parodia. Fra Giuseppe Garibaldi e… Alceste De Ambris c’è… una piccola soluzione di continuità». Date queste premesse, la «democrazia italiana una e trina e, …triangolare» «s’inganna» se crede che, vantando i socialisti francesi, possa impressionare i socialisti italiani.
Nella nota del 2 ottobre Mussolini se la prende col Secolo e scrive: Il Secolo dice che «non spetta precisamente alla democrazia di assumersi la responsabilità di eccitare alla guerra a qualunque costo. […] La democrazia non vuole assumersi la responsabilità di eccitare alla guerra e sta bene. Nessuno le contesta questo diritto. Ma allora, spetta forse al Partito socialista di assumersi tale responsabilità? Se la democrazia […] non osa accettare la responsabilità di eccitare alla guerra, pretende forse […] che tale tremenda responsabilità sia assunta dai socialisti italiani? […] Se la democrazia, prudente o impotente, non osa gridare a piena voce, per tutti i quadrivi delle cento città d’Italia, il fatidico: a Trieste! A Trieste!, pretende di farsi sostituire da noi socialisti che irredentisti non fummo e non siamo?».
Poco dopo, il 15 novembre Mussolini fonda il Popolo d’Italia, si mette a fare il garibaldino e a predicare la guerra rivoluzionaria. Il passaggio di Mussolini dalla neutralità assoluta alla guerra rivoluzionaria si comprende meglio se si segue la traccia dei soldi e quella delle parole. Per i soldi basta dire che Giuseppe Pontemoli, autorevole esponente del Grande Oriente d’Italia, anticipa 20.000 lire per comprare la rotativa con cui sarebbe stato stampato il nuovo quotidiano. Per le parole, conviene riportare quelle misurate con le quali Gino Bandini, direttore del settimanale massonico L’Idea democratica, il 25 ottobre commenta la metamorfosi.
Dopo aver premesso che Mussolini resta un avversario ma leale e rispettabile per «sincerità, dirittura di coscienza e fermezza di carattere» e che la sua crisi non è un fatto personale ma «crisi di partito», «di non scarsa importanza», Bandini nota: «Ma desideriamo rilevare la parte saliente degli argomenti che determinarono la virile risoluzione di Mussolini. Egli […] ci afferma che, nel caso di una guerra contro l’Austria, il socialismo italiano lascia aperta la via: più ancora che, se interrogato sulla convenienza di muover guerra all’Austria, il proletariato italiano risponderebbe con un nuovo plebiscito»: cosicché «contro l’Austria la neutralità assoluta cade automaticamente. È quello che noi abbiamo sempre pensato. E ci conforta sentirlo oggi ripetere da una tale voce». La conclusione è che quel che si è «maturato nella coscienza di Mussolini, non potrà non rivelarsi a traverso un procedimento necessariamente più lento, alla coscienza collettiva del popolo italiano» e, dunque, «il bel gesto ci appare, soprattutto, un gesto iniziale».
La conversione di Mussolini, in verità, non produsse una grande emorragia nelle file socialiste né fu seguita da gran parte del popolo italiano alla guerra.
Comunque, con un po’ di tempo la logica degli eventi fu chiara anche all’Avanti! che il 24 gennaio 1915 dedicò l’articolo di fondo alla combine tra sedicenti rivoluzionari e «borghesia massonica». Molti contemporanei alla fine capirono quello che c’era da capire. Gli storici, no. Non ancora.
Gli articoli sono intitolati Hervè promette…, La lavata di capo… e Pazienza o impotenza. In essi il direttore polemizza con la stampa democratica (La Gazzetta del popolo di Torino, Il Secolo di Milano, Il Giornale del mattino di Bologna e Il Messaggero di Roma, giornali a tutti noti come massonici) per dire sostanzialmente questo: i giornali democratici propongono alla pubblica opinione i socialisti francesi, che si sono schierati per la difesa della patria, esaltandoli come modello da seguire per i socialisti italiani.
Nel primo articolo Mussolini polemizza anche col socialista francese Hervè e sostiene: «Non è con questi sistemi» che si può «cattivare simpatie» alla causa della Francia. Se l’Italia vorrà Trento e Trieste «dovrà mettere in campo un esercito di almeno due milioni di uomini»; e, d’altra, parte, all’interno del movimento socialista, la tradizione garibaldina è «finita». «Garibaldi è morto – scrive Mussolini – e non ha avuto successori. Non poteva averne. Egli era unico nella storia. Il garibaldinismo odierno è una povera parodia. Fra Giuseppe Garibaldi e… Alceste De Ambris c’è… una piccola soluzione di continuità». Date queste premesse, la «democrazia italiana una e trina e, …triangolare» «s’inganna» se crede che, vantando i socialisti francesi, possa impressionare i socialisti italiani.
Nella nota del 2 ottobre Mussolini se la prende col Secolo e scrive: Il Secolo dice che «non spetta precisamente alla democrazia di assumersi la responsabilità di eccitare alla guerra a qualunque costo. […] La democrazia non vuole assumersi la responsabilità di eccitare alla guerra e sta bene. Nessuno le contesta questo diritto. Ma allora, spetta forse al Partito socialista di assumersi tale responsabilità? Se la democrazia […] non osa accettare la responsabilità di eccitare alla guerra, pretende forse […] che tale tremenda responsabilità sia assunta dai socialisti italiani? […] Se la democrazia, prudente o impotente, non osa gridare a piena voce, per tutti i quadrivi delle cento città d’Italia, il fatidico: a Trieste! A Trieste!, pretende di farsi sostituire da noi socialisti che irredentisti non fummo e non siamo?».
Poco dopo, il 15 novembre Mussolini fonda il Popolo d’Italia, si mette a fare il garibaldino e a predicare la guerra rivoluzionaria. Il passaggio di Mussolini dalla neutralità assoluta alla guerra rivoluzionaria si comprende meglio se si segue la traccia dei soldi e quella delle parole. Per i soldi basta dire che Giuseppe Pontemoli, autorevole esponente del Grande Oriente d’Italia, anticipa 20.000 lire per comprare la rotativa con cui sarebbe stato stampato il nuovo quotidiano. Per le parole, conviene riportare quelle misurate con le quali Gino Bandini, direttore del settimanale massonico L’Idea democratica, il 25 ottobre commenta la metamorfosi.
Dopo aver premesso che Mussolini resta un avversario ma leale e rispettabile per «sincerità, dirittura di coscienza e fermezza di carattere» e che la sua crisi non è un fatto personale ma «crisi di partito», «di non scarsa importanza», Bandini nota: «Ma desideriamo rilevare la parte saliente degli argomenti che determinarono la virile risoluzione di Mussolini. Egli […] ci afferma che, nel caso di una guerra contro l’Austria, il socialismo italiano lascia aperta la via: più ancora che, se interrogato sulla convenienza di muover guerra all’Austria, il proletariato italiano risponderebbe con un nuovo plebiscito»: cosicché «contro l’Austria la neutralità assoluta cade automaticamente. È quello che noi abbiamo sempre pensato. E ci conforta sentirlo oggi ripetere da una tale voce». La conclusione è che quel che si è «maturato nella coscienza di Mussolini, non potrà non rivelarsi a traverso un procedimento necessariamente più lento, alla coscienza collettiva del popolo italiano» e, dunque, «il bel gesto ci appare, soprattutto, un gesto iniziale».
La conversione di Mussolini, in verità, non produsse una grande emorragia nelle file socialiste né fu seguita da gran parte del popolo italiano alla guerra.
Comunque, con un po’ di tempo la logica degli eventi fu chiara anche all’Avanti! che il 24 gennaio 1915 dedicò l’articolo di fondo alla combine tra sedicenti rivoluzionari e «borghesia massonica». Molti contemporanei alla fine capirono quello che c’era da capire. Gli storici, no. Non ancora.
«Avvenire» del 22 luglio 2014
Nessun commento:
Posta un commento