L'altra faccia di una tragedia
di Marina Corradi
Nell’incrocio di destini del naufragio della Costa Concordia alcune storie emergono e restano nella memoria anche quando il telegiornale è finito, il pc spento. Come la storia del passeggero disabile salvato da un viaggiatore che ha trascinato la carrozzella verso le scialuppe; o del commissario di bordo rimasto intrappolato e ferito dopo avere aiutato molti altri; come le storie di salvagente allungati a un amico o a uno sconosciuto, che si salva, e poi sul molo dell’isola del Giglio cercherà invano la faccia che vuole ringraziare. Ma dallo stesso groviglio di memoria annodato attorno a una nave che affonda vengono altri echi: di salvagente contesi e strappati, di spintoni per accaparrarsi un posto su una scialuppa, di bambini abbandonati dalle baby sitter al miniclub, nell’ora della paura. Addirittura del comandante che, sembra, ha abbandonato la sua nave, quando, per legge e per onore, avrebbe dovuto essere l’ultimo.
Il coraggio e l’egoismo o la viltà emergono dalle testimonianze del naufragio con una schietta evidenza, che però non sempre corrisponde agli schemi precostituiti. Il coraggio si mostra su facce che avresti detto qualunque, e non magari dietro una divisa, a delle mostrine, là dove te lo aspetteresti. Perché una tragedia come quella dell’altra notte è una sorta di reagente nel coacervo di sconosciute umanità di una grande nave con 4.000 persone a bordo, una festante nave appena partita per una lieta crociera; dove si mangia, si beve, si balla, e la vita appare spensierata, e si può e forse si desidera, stanchi, finalmente in vacanza, di dimenticarsi di sé.
Repentino, l’imprevisto si manifesta con un boato, le luci che si spengono, la musica che tace. Confusione, cellulari che squillano, figli che non si trovano, passi di corsa, paura. Poi la regale ammiraglia che si inclina, il panico che si insinua. Che sia possibile morire così, sulla più grande nave da crociera italiana, a poche centinaia di metri dalla terra?
E nel momento in cui questo pensiero si fa strada nella lucente città sull’acqua, in quella babele di lingue fra loro straniere, di colpo ognuno viene riportato in sé, alle domande più vere. Se nella vita quotidiana è possibile illudersi di essere forti e generosi, negli istanti di una emergenza, mentre la folla spinge e le carrucole delle scialuppe cigolano inceppate, non si può traccheggiare, né ingannarsi. C’è una molla potente e antica, l’istinto di sopravvivenza, che spinge verso la salvezza. Come accadrebbe in un’orda di animali inseguita dai cacciatori: si travolgono fra loro, tesi a sopravvivere. Eppure in alcuni, in tanti, contro all’istinto, qualcosa insorge dentro, una cosa che in un’ottica puramente darwinista è strana, perché non risponde alla logica della selezione del più forte: chi si ferma e aiuta un vecchio, chi cede il suo salvagente, chi prende in braccio uno sconosciuto bambino. Fra le urla, fra gli spintoni, anche mani allungate ad aiutarsi, coperte allargate sulle spalle di gente mai vista, passi che tornano indietro, a cercare chi manca.
Cos’è, che fronteggia l’istinto di sopravvivenza e compare inaspettato, in uomini che magari avresti detto pavidi, in vite che avresti detto qualunque? L’ora di una tragedia vaglia gli animi e interroga, e in un istante bisogna rispondere: viviamo solo per noi, ci importa solo di noi, o invece il destino degli altri ci riguarda, e quel vecchio smarrito all’improvviso ha la faccia di nostro padre, e non possiamo lasciarlo solo? La domanda di certe ore è terribile, e rivela, senza possibilità di mentire.
E noi che non c’eravamo stiamo a guardare e ad ascoltare, attenti, commossi e come stranamente inquieti: e tu – è come se qualcuno ci dicesse – in quel buio, in quel panico, cosa avresti fatto? Saresti tornato sui tuoi passi, tu, per un grido avvertito in una cabina chiusa? Certo le madri, i padri, sì, ritornano, a cercare i figli. Ma c’è gente che non era padre né madre, eppure è tornata indietro, come inesorabilmente legata all’altrui destino. Ed è questo, in una notte come quella del Giglio, il più grande mistero.
Il coraggio e l’egoismo o la viltà emergono dalle testimonianze del naufragio con una schietta evidenza, che però non sempre corrisponde agli schemi precostituiti. Il coraggio si mostra su facce che avresti detto qualunque, e non magari dietro una divisa, a delle mostrine, là dove te lo aspetteresti. Perché una tragedia come quella dell’altra notte è una sorta di reagente nel coacervo di sconosciute umanità di una grande nave con 4.000 persone a bordo, una festante nave appena partita per una lieta crociera; dove si mangia, si beve, si balla, e la vita appare spensierata, e si può e forse si desidera, stanchi, finalmente in vacanza, di dimenticarsi di sé.
Repentino, l’imprevisto si manifesta con un boato, le luci che si spengono, la musica che tace. Confusione, cellulari che squillano, figli che non si trovano, passi di corsa, paura. Poi la regale ammiraglia che si inclina, il panico che si insinua. Che sia possibile morire così, sulla più grande nave da crociera italiana, a poche centinaia di metri dalla terra?
E nel momento in cui questo pensiero si fa strada nella lucente città sull’acqua, in quella babele di lingue fra loro straniere, di colpo ognuno viene riportato in sé, alle domande più vere. Se nella vita quotidiana è possibile illudersi di essere forti e generosi, negli istanti di una emergenza, mentre la folla spinge e le carrucole delle scialuppe cigolano inceppate, non si può traccheggiare, né ingannarsi. C’è una molla potente e antica, l’istinto di sopravvivenza, che spinge verso la salvezza. Come accadrebbe in un’orda di animali inseguita dai cacciatori: si travolgono fra loro, tesi a sopravvivere. Eppure in alcuni, in tanti, contro all’istinto, qualcosa insorge dentro, una cosa che in un’ottica puramente darwinista è strana, perché non risponde alla logica della selezione del più forte: chi si ferma e aiuta un vecchio, chi cede il suo salvagente, chi prende in braccio uno sconosciuto bambino. Fra le urla, fra gli spintoni, anche mani allungate ad aiutarsi, coperte allargate sulle spalle di gente mai vista, passi che tornano indietro, a cercare chi manca.
Cos’è, che fronteggia l’istinto di sopravvivenza e compare inaspettato, in uomini che magari avresti detto pavidi, in vite che avresti detto qualunque? L’ora di una tragedia vaglia gli animi e interroga, e in un istante bisogna rispondere: viviamo solo per noi, ci importa solo di noi, o invece il destino degli altri ci riguarda, e quel vecchio smarrito all’improvviso ha la faccia di nostro padre, e non possiamo lasciarlo solo? La domanda di certe ore è terribile, e rivela, senza possibilità di mentire.
E noi che non c’eravamo stiamo a guardare e ad ascoltare, attenti, commossi e come stranamente inquieti: e tu – è come se qualcuno ci dicesse – in quel buio, in quel panico, cosa avresti fatto? Saresti tornato sui tuoi passi, tu, per un grido avvertito in una cabina chiusa? Certo le madri, i padri, sì, ritornano, a cercare i figli. Ma c’è gente che non era padre né madre, eppure è tornata indietro, come inesorabilmente legata all’altrui destino. Ed è questo, in una notte come quella del Giglio, il più grande mistero.
«Avvenire» del 17 gennaio 2012
Nessun commento:
Posta un commento