Cronache dell'io
di Claudio Magris
I versi non sono evasione, ma un tuffo nella realtà
La poesia, scrive Flaubert, è una scienza esatta, come la geometria. Pubblicare una collana di poesia, per un grande giornale, non significa mettere una rosa su un tavolaccio dove si riversano i sanguinosi, fangosi, eccitati, angosciosi eventi del mondo, dalla cronaca nera alla recessione economica, dalle stragi che sempre avvengono in qualche parte del mondo alle turpitudini e alle virtù di casa nostra. Un giornale, specie un quotidiano, è un romanzo; spesso un romanzaccio della realtà - politica, economica, sociale, morale.
Ogni giorno ci dà una fotografia - una radiografia, una risonanza magnetica - della nostra esistenza; una lastra ora più ora meno fedele e veritiera, messa a fuoco o sfuocata, in certi casi pure un fotomontaggio abusivo del reale. La poesia non è un'evasione né tantomeno una sublimazione spiritualeggiante della realtà; è anzi spesso uno dei suoi ritratti più precisi, spietati, autentici. Non è meno realista delle cronache politiche, dei reportages su una guerra o su un'epidemia, delle relazioni sui bilanci e sui deficit. La letteratura - e, nel suo ambito, la poesia in modo particolare - non dà informazioni sui fatti, sulla crisi economica, sulle leggi che regolano i matrimoni, le pensioni o l'assistenza sociale, ma dice come gli uomini vivano tutto questo; dice come i grandi numeri della disoccupazione, del disagio sociale o delle ideologie in crescita o in declino si calino nell'esistenza degli individui, diventino la loro quotidianità, la loro carne e il loro sangue.
La poesia dice la verità della realtà più vera, più corposa e concreta: la vita di ogni singolo individuo. Dice come egli ama, soffre, desidera, protesta, spera, incontra o fugge gli altri individui. Se vogliamo capire cosa è stata veramente la storia d'Italia dell'ultimo secolo, non basta sapere cosa hanno fatto Mussolini, De Gasperi o Agnelli; d'Annunzio o Pasolini - per citare a caso due esempi rilevanti - ci fanno toccare con mano cos'è stata questa storia, con le sue trasformazioni e suoi subbugli, nella vita concretissima dei sensi, dei sogni, delle speranze, delle disillusioni degli uomini. «Il grande poeta - dice Eliot - nello scrivere se stesso scrive il suo tempo» - ossia il nostro tempo, se è un contemporaneo, o un'altra stagione della storia, se ha vissuto, scritto e patito in passato. Per conoscere il nostro tempo - per conoscerci, per sapere come abbiamo vissuto o non vissuto, come la Storia si sia intrecciata ai nostri amori, alle nostre pulsioni, ai nostri bisogni intimi e fondamentali - occorre rivolgersi ai poeti.
Questi ultimi non sono necessariamente migliori degli altri; spesso sono egocentrici, invidiosi, meschini; le rivalità che si creano intorno a un premio letterario sono spesso più ignobili e miserevoli di quelle per la conquista di un potere economico o politico. I poeti - ha detto uno fra i più grandi di essi, Milosz - hanno spesso un cuore freddo; se scrivono una poesia per la morte di un bambino, rischiano di appassionarsi più per la bellezza dei loro versi che per la morte del bambino pianta in quei versi. Ma, anche grazie a questa selvaggia e irresponsabile soggettività, i poeti fanno i conti più di ogni altro con la nostra pelle, con il fuoco e la follia latenti nella realtà quotidiana apparentemente normale; rubano e diffondono la fiamma di tante verità umane insostenibili e perciò spesso soffocate dalle istituzioni della vita organizzata. La poesia dice il fondo della vita - come, secondo Saba, lo dicono gli animali - e assume su di sé, nella realtà concreta delle reazioni epidermiche e delle brucianti nostalgie, le contraddizioni della propria epoca.
Pubblicando una collana di poesia, un grande giornale non offre un delicato dessert o digestivo che compensi il cibo troppo robustoso e forte dell'informazione politica o economica, ma assolve al suo compito primo, che è appunto quello dell'informazione. Un'informazione che sarebbe carente se trascurasse quella realtà di sogni, pulsioni, sfide, smarrimenti che sono di tutti e che la poesia esprime per tutti. La vita di un poeta è quella di tutti, diceva Gérard de Nerval; è doveroso offrirla a quei tutti - almeno potenziali - che sono i lettori. Anche i giornali hanno bisogno, per svolgere con precisione e dunque con onestà il loro lavoro, della poesia: nessuno come il poeta, dice Rilke, odia l'approssimativo.
Ogni giorno ci dà una fotografia - una radiografia, una risonanza magnetica - della nostra esistenza; una lastra ora più ora meno fedele e veritiera, messa a fuoco o sfuocata, in certi casi pure un fotomontaggio abusivo del reale. La poesia non è un'evasione né tantomeno una sublimazione spiritualeggiante della realtà; è anzi spesso uno dei suoi ritratti più precisi, spietati, autentici. Non è meno realista delle cronache politiche, dei reportages su una guerra o su un'epidemia, delle relazioni sui bilanci e sui deficit. La letteratura - e, nel suo ambito, la poesia in modo particolare - non dà informazioni sui fatti, sulla crisi economica, sulle leggi che regolano i matrimoni, le pensioni o l'assistenza sociale, ma dice come gli uomini vivano tutto questo; dice come i grandi numeri della disoccupazione, del disagio sociale o delle ideologie in crescita o in declino si calino nell'esistenza degli individui, diventino la loro quotidianità, la loro carne e il loro sangue.
La poesia dice la verità della realtà più vera, più corposa e concreta: la vita di ogni singolo individuo. Dice come egli ama, soffre, desidera, protesta, spera, incontra o fugge gli altri individui. Se vogliamo capire cosa è stata veramente la storia d'Italia dell'ultimo secolo, non basta sapere cosa hanno fatto Mussolini, De Gasperi o Agnelli; d'Annunzio o Pasolini - per citare a caso due esempi rilevanti - ci fanno toccare con mano cos'è stata questa storia, con le sue trasformazioni e suoi subbugli, nella vita concretissima dei sensi, dei sogni, delle speranze, delle disillusioni degli uomini. «Il grande poeta - dice Eliot - nello scrivere se stesso scrive il suo tempo» - ossia il nostro tempo, se è un contemporaneo, o un'altra stagione della storia, se ha vissuto, scritto e patito in passato. Per conoscere il nostro tempo - per conoscerci, per sapere come abbiamo vissuto o non vissuto, come la Storia si sia intrecciata ai nostri amori, alle nostre pulsioni, ai nostri bisogni intimi e fondamentali - occorre rivolgersi ai poeti.
Questi ultimi non sono necessariamente migliori degli altri; spesso sono egocentrici, invidiosi, meschini; le rivalità che si creano intorno a un premio letterario sono spesso più ignobili e miserevoli di quelle per la conquista di un potere economico o politico. I poeti - ha detto uno fra i più grandi di essi, Milosz - hanno spesso un cuore freddo; se scrivono una poesia per la morte di un bambino, rischiano di appassionarsi più per la bellezza dei loro versi che per la morte del bambino pianta in quei versi. Ma, anche grazie a questa selvaggia e irresponsabile soggettività, i poeti fanno i conti più di ogni altro con la nostra pelle, con il fuoco e la follia latenti nella realtà quotidiana apparentemente normale; rubano e diffondono la fiamma di tante verità umane insostenibili e perciò spesso soffocate dalle istituzioni della vita organizzata. La poesia dice il fondo della vita - come, secondo Saba, lo dicono gli animali - e assume su di sé, nella realtà concreta delle reazioni epidermiche e delle brucianti nostalgie, le contraddizioni della propria epoca.
Pubblicando una collana di poesia, un grande giornale non offre un delicato dessert o digestivo che compensi il cibo troppo robustoso e forte dell'informazione politica o economica, ma assolve al suo compito primo, che è appunto quello dell'informazione. Un'informazione che sarebbe carente se trascurasse quella realtà di sogni, pulsioni, sfide, smarrimenti che sono di tutti e che la poesia esprime per tutti. La vita di un poeta è quella di tutti, diceva Gérard de Nerval; è doveroso offrirla a quei tutti - almeno potenziali - che sono i lettori. Anche i giornali hanno bisogno, per svolgere con precisione e dunque con onestà il loro lavoro, della poesia: nessuno come il poeta, dice Rilke, odia l'approssimativo.
«Corriere della Sera» del 27 dicembre 2011
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