Le
di Giorgio Israel
In occasione del Giorno della Memoria 2012 Valentina Pisanty pubblica Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori) in cui identifica gli abusi di memoria nei meccanismi della negazione, banalizzazione e sacralizzazione della Shoah. Pisanty accenna ai limiti della Giornata, spesso intrisa di «retorica celebrativa, consolatoria e autoindulgente» e di «derive banalizzanti e sacralizzanti», dovute all’aver legato la Shoah alla categoria (soggettiva) della memoria anziché a quella (tendenzialmente intersoggettiva) della storia. Banalizzazione e sacralizzazione sono facce della stessa medaglia: la prima spoglia la Shoah «dei suoi attributi specifici per equipararla ad altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo»; la seconda la proietta in «una dimensione metafisica e ultrastorica». È una tesi che condivido. La enunciò per primo Alain Finkielkraut trenta anni fa, sostenendo che l’idea dell’unicità del «genocidio» ebraico avrebbe creato un corteo di «aspiranti» miranti a ottenere il «privilegio» dello stato di vittima suprema. L’ho sviluppata criticando la tesi dell'unicità della Shoah, vista come evento metafisico e astorico, nel libro La questione ebraica oggi e in tanti articoli. Ho sostenuto che è legittimo istituire confronti storici tra la Shoah ed eventi comparabili come il Gulag sovietico. Tutto ciò mi è costato (anche di recente) critiche veementi da parte dei «sacralizzatori». È quindi con divertita sorpresa che vedo arrivare l’attacco opposto: Pisanty mi presenta come «sacralizzatore», per un articolo pubblicato sul Giornale (15 febbraio 2011) in cui criticavo episodi di banalizzazione: l’uso dello slogan Se non ora quando (titolo di un celebre libro di Primo Levi) da parte dei «partigiani antiberlusconiani»; il corteo degli insegnanti che sfilarono con la stella gialla contro la riforma Gelmini.
Il meccanismo critico «semiologico» di Pisanty è interessante. Si scarta in nota il fatto che esistano miei scritti in cui critico la sacralizzazione: conta solo l’articolo sul Giornale. E si fa un’operazione di ricostruzione degli «spazi vuoti di cui il testo è intessuto» per sostenere che «non è di banalizzazione che si sta discutendo ma di una colpa di lesa sacralità della memoria». La mia tesi sarebbe che il «nocciolo dell’identità ebraica è lo scontro eroico con un nemico immensamente più potente». Che tale tesi non mi appartenga affatto non conta: essa c’è, «sia pure in forma implicita e “tecnicizzata”» (?) negli «spazi vuoti» e usa «gli stessi meccanismi sacralizzanti che l’autore altrove respinge». Una serie di ardite acrobazie sugli spazi vuoti mi attribuisce pure la sacralizzazione di «resistenza e sionismo assieme alla Shoah»… Inoltre, conferirei solo ai sostenitori dell’attuale politica israeliana il diritto di usare lo slogan di Levi. Si conclude con la reboante condanna: «interpretazione insostenibile se non francamente scandalosa».
Viene da ridere leggendo che, per attribuirmi queste tesi, «gli impliciti da riempire per dare un senso coerente al testo si moltiplicano», che «le inferenze necessarie sono al di sotto della consapevolezza critica» e la mia sacralizzazione non è forse «neppure intenzionale. Ma è più che altro malinconico che l’autrice non si renda conto che il meccanismo messo in atto - ignorare il pensiero altrui nel suo complesso, appuntarsi su un singolo testo, «riempiendolo» del senso voluto, anche contro l’evidenza - appartiene alla metodologia inquisitoria di tutti i tempi.
Il senso del mio articolo - che lo rende del tutto coerente con la critica della banalizzazione e sacralizzazione come facce della stessa medaglia - sta proprio nell’aver criticato la pretesa di stabilire ogni sorta di comparazione. Chi ha un minimo di senso storico può comparare la Shoah con «altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo», come il Gulag, ma non includere tra questi la riforma Gelmini e il governo Berlusconi. Più che la storia ne va di mezzo il buon senso. Pisanty, invece di leggere questa tesi ne ha costruita una ad hoc. Cosa l'ha spinta a una simile figuraccia? Viene da chiedersi: se qualche categoria sgradita, un po’ «reazionaria» - che so io, i tassinari - fosse scesa in piazza con la stella di David e avessi scritto lo stesso articolo contro questa banalizzazione (di certo l’avrei fatto), Pisanty mi avrebbe criticato allo stesso modo? Sospetto che mi avrebbe addirittura lodato. Ma qui mi fermo, perché non intendo scendere sullo stesso terreno di un metodo che riempie gli spazi vuoti con una mediocre psicanalisi. Preferisco il metodo dell’analisi storica, il riferimento all’integrità del pensiero altrui, il diritto di chiunque a criticare chiunque (inclusi i governi di Israele); incluso quello di criticare come indecenza banalizzante/sacralizzante l'omologazione dei «partigiani» e degli insegnanti antiberlusconiani alle vittime di Auschwitz, senza l’assurdo di vedersi ritorta l’accusa che si sta muovendo. Di certo, attorno al Giorno della Memoria la confusione cresce, il che, con i tempi che corrono, è assai preoccupante.
Il meccanismo critico «semiologico» di Pisanty è interessante. Si scarta in nota il fatto che esistano miei scritti in cui critico la sacralizzazione: conta solo l’articolo sul Giornale. E si fa un’operazione di ricostruzione degli «spazi vuoti di cui il testo è intessuto» per sostenere che «non è di banalizzazione che si sta discutendo ma di una colpa di lesa sacralità della memoria». La mia tesi sarebbe che il «nocciolo dell’identità ebraica è lo scontro eroico con un nemico immensamente più potente». Che tale tesi non mi appartenga affatto non conta: essa c’è, «sia pure in forma implicita e “tecnicizzata”» (?) negli «spazi vuoti» e usa «gli stessi meccanismi sacralizzanti che l’autore altrove respinge». Una serie di ardite acrobazie sugli spazi vuoti mi attribuisce pure la sacralizzazione di «resistenza e sionismo assieme alla Shoah»… Inoltre, conferirei solo ai sostenitori dell’attuale politica israeliana il diritto di usare lo slogan di Levi. Si conclude con la reboante condanna: «interpretazione insostenibile se non francamente scandalosa».
Viene da ridere leggendo che, per attribuirmi queste tesi, «gli impliciti da riempire per dare un senso coerente al testo si moltiplicano», che «le inferenze necessarie sono al di sotto della consapevolezza critica» e la mia sacralizzazione non è forse «neppure intenzionale. Ma è più che altro malinconico che l’autrice non si renda conto che il meccanismo messo in atto - ignorare il pensiero altrui nel suo complesso, appuntarsi su un singolo testo, «riempiendolo» del senso voluto, anche contro l’evidenza - appartiene alla metodologia inquisitoria di tutti i tempi.
Il senso del mio articolo - che lo rende del tutto coerente con la critica della banalizzazione e sacralizzazione come facce della stessa medaglia - sta proprio nell’aver criticato la pretesa di stabilire ogni sorta di comparazione. Chi ha un minimo di senso storico può comparare la Shoah con «altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo», come il Gulag, ma non includere tra questi la riforma Gelmini e il governo Berlusconi. Più che la storia ne va di mezzo il buon senso. Pisanty, invece di leggere questa tesi ne ha costruita una ad hoc. Cosa l'ha spinta a una simile figuraccia? Viene da chiedersi: se qualche categoria sgradita, un po’ «reazionaria» - che so io, i tassinari - fosse scesa in piazza con la stella di David e avessi scritto lo stesso articolo contro questa banalizzazione (di certo l’avrei fatto), Pisanty mi avrebbe criticato allo stesso modo? Sospetto che mi avrebbe addirittura lodato. Ma qui mi fermo, perché non intendo scendere sullo stesso terreno di un metodo che riempie gli spazi vuoti con una mediocre psicanalisi. Preferisco il metodo dell’analisi storica, il riferimento all’integrità del pensiero altrui, il diritto di chiunque a criticare chiunque (inclusi i governi di Israele); incluso quello di criticare come indecenza banalizzante/sacralizzante l'omologazione dei «partigiani» e degli insegnanti antiberlusconiani alle vittime di Auschwitz, senza l’assurdo di vedersi ritorta l’accusa che si sta muovendo. Di certo, attorno al Giorno della Memoria la confusione cresce, il che, con i tempi che corrono, è assai preoccupante.
«Il Giornale» del 27 gennaio 2012
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