di Massimo Gramellini
Un capro espiatorio per sfogare la rabbia, un eroe senza macchia per placarla. E’ la formula un po’ stucchevole delle storie italiane al tempo della crisi. Anche nel dramma del Giglio la realtà è stata immediatamente diluita in un fumetto.
Servivano un’immagine evocativa (la nave sdraiata su un fianco, simbolo del Paese alla deriva) e uno Schettino che riempisse il vuoto lasciato da Berlusconi alla casella Figuracce & Bugie e assommasse su di sé l’orrore del mondo (ieri il Tg5 ha definito i suoi tratti fisici «lombrosiani» e il Tg3 lo mostrava in smoking come il comandante di «Love Boat» per suggerire maliziosamente la sua inconsistenza morale, quando TUTTI i comandanti di una crociera indossano lo smoking, nelle serate di gala). Mancava ancora il buono, che nella trama assolve al compito cruciale di riscattare l’onore ferito della collettività, fortificandola nell’illusione di essere migliore di quanto non sia. Adesso anche il buono c’è.
Ovviamente facciamo tutti il tifo per De Falco, il capo assertivo della Capitaneria di Livorno che nella ormai celebre telefonata ordina al comandante Schettino, già inscialuppatosi verso la riva, di tornare sulla nave e comportarsi da uomo. (Ordine vano, peraltro, come quasi tutti gli ordini dati in Italia, perché Schettino gli dice di sì e poi continua a scappare).
Eviterei però il gioco insistito dei paragoni: l’eroe contrapposto al vigliacco, l’italiano buono all’italiano cattivo, fino all’urlo autoassolutorio che ho letto su un blog: «Io sono De Falco». Anch’io. Anche Schettino, credetemi, se fosse stato sulla poltrona di De Falco sarebbe stato De Falco e avrebbe dato ordini perentori al se stesso vigliacco che tremava in mezzo al mare per la paura di morire.
Non voglio togliere meriti al valido ufficiale della Capitaneria, ma contesto l’abuso del termine «eroe», che in un’epoca che ha smarrito il significato delle parole viene appuntata sul petto di chiunque fa semplicemente il proprio dovere: rifiutando una mazzetta se è un funzionario pubblico, denunciando un giro di scommesse se è un calciatore, assumendosi le proprie responsabilità se esercita un ruolo di responsabilità. Dall’Iliade a Harry Potter, l’eroe è colui - soltanto colui - che mette a repentaglio la propria vita. E non perché la disprezza (quello è il fanatico), ma perché è disposto a sacrificarla in nome di un valore più elevato: l’amore (a-mor, oltre la morte).
Non escludo che l’ottimo De Falco sarebbe stato un eroe: il destino non gli ha consentito di mettersi alla prova. Dubito che lo sarei stato io e tanti altri che disputano sulla viltà di Schettino. Per me nella storiaccia del Giglio esistono persone inadeguate e altre adeguate, ma un unico vero eroe. Il commissario di bordo che con la gamba spezzata ha continuato a salvare le vite degli altri.
Servivano un’immagine evocativa (la nave sdraiata su un fianco, simbolo del Paese alla deriva) e uno Schettino che riempisse il vuoto lasciato da Berlusconi alla casella Figuracce & Bugie e assommasse su di sé l’orrore del mondo (ieri il Tg5 ha definito i suoi tratti fisici «lombrosiani» e il Tg3 lo mostrava in smoking come il comandante di «Love Boat» per suggerire maliziosamente la sua inconsistenza morale, quando TUTTI i comandanti di una crociera indossano lo smoking, nelle serate di gala). Mancava ancora il buono, che nella trama assolve al compito cruciale di riscattare l’onore ferito della collettività, fortificandola nell’illusione di essere migliore di quanto non sia. Adesso anche il buono c’è.
Ovviamente facciamo tutti il tifo per De Falco, il capo assertivo della Capitaneria di Livorno che nella ormai celebre telefonata ordina al comandante Schettino, già inscialuppatosi verso la riva, di tornare sulla nave e comportarsi da uomo. (Ordine vano, peraltro, come quasi tutti gli ordini dati in Italia, perché Schettino gli dice di sì e poi continua a scappare).
Eviterei però il gioco insistito dei paragoni: l’eroe contrapposto al vigliacco, l’italiano buono all’italiano cattivo, fino all’urlo autoassolutorio che ho letto su un blog: «Io sono De Falco». Anch’io. Anche Schettino, credetemi, se fosse stato sulla poltrona di De Falco sarebbe stato De Falco e avrebbe dato ordini perentori al se stesso vigliacco che tremava in mezzo al mare per la paura di morire.
Non voglio togliere meriti al valido ufficiale della Capitaneria, ma contesto l’abuso del termine «eroe», che in un’epoca che ha smarrito il significato delle parole viene appuntata sul petto di chiunque fa semplicemente il proprio dovere: rifiutando una mazzetta se è un funzionario pubblico, denunciando un giro di scommesse se è un calciatore, assumendosi le proprie responsabilità se esercita un ruolo di responsabilità. Dall’Iliade a Harry Potter, l’eroe è colui - soltanto colui - che mette a repentaglio la propria vita. E non perché la disprezza (quello è il fanatico), ma perché è disposto a sacrificarla in nome di un valore più elevato: l’amore (a-mor, oltre la morte).
Non escludo che l’ottimo De Falco sarebbe stato un eroe: il destino non gli ha consentito di mettersi alla prova. Dubito che lo sarei stato io e tanti altri che disputano sulla viltà di Schettino. Per me nella storiaccia del Giglio esistono persone inadeguate e altre adeguate, ma un unico vero eroe. Il commissario di bordo che con la gamba spezzata ha continuato a salvare le vite degli altri.
«La Stampa» del 18 gennaio 2012
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