Manipoli, armature, colpi di «pilum». Un saggio racconta grandezza e miserie del più temibile esercito dell’antichità
di di Matteo Sacchi
Se uno entra in libreria e si aggira un po’ tra gli scaffali può avere l’impressione che la Guerra gallica o la difesa del Vallo di Adriano siano cronaca recente. Non saranno dei volumen papiracei, ma i titoli sono roba da Basso impero: La legione degli invincibili. Mos Maiorum; La legione degli immortali; La legione dimenticata; La legione, Il centurione di Augusto; Il centurione. Se vuoi la pace prepara la guerra; L’aquila sul Nilo... Insomma, il legionario romano è diventato un eroe da romanzo a tutti gli effetti. E non è che la cosa si limiti ai libri: c’è Spartacus (gladiatore, ma ex membro delle truppe ausiliarie in Dacia) che impazza sul piccolo schermo, c’è il valente generale Massimo Decimo Meridio di Ridley Scott e tutti i suoi eredi che scorrazzano sul grande schermo ...
Ma ciò che ci raccontano o ci fanno vedere, ha davvero qualcosa a che fare con la realtà? Il modo migliore per farsi un’idea sulla questione è leggere il saggio di Chris McNab appena pubblicato dalla LEG: L’esercito di Roma (pagg. 342, euro 32). McNab è uno dei massimi esperti inglesi di storia militare e i suoi testi illustrati, molti dei quali disponibili solo in inglese, sono un vero classico della materia. In L’esercito di Roma racconta tutto quanto che c’è da sapere sulla lorica hamata (la cotta di maglia che proteggeva i milites), il pilum (giavellotto) e la disposizione in battaglia delle legioni.
Il suo saggio parte dai primordi (l’Urbe al tempo dei re) e arriva sino al tardo Impero e ha il merito, grazie anche alle moltissime illustrazioni, di scardinare l’immagine stereotipata che tutti abbiamo in mente e che finiamo per sovrapporre a tutte le epoche della romanità: un legionario col mantello rosso e lo scudo quadrato coperto di un’armatura metallica lamellare (lorica segmentata).
Beh, in epoca arcaica i romani erano attrezzati né più né meno (spesso meno) come gli altri popoli latini: scudi di foggia varia, spesso alla greca, e scodelloni di bronzo sulla testa. Anche dopo, per lunghissimo tempo quella romana è rimasta una fanteria che combatteva alla maniera degli opliti greci: cittadini addestrati alla bell’e meglio che fanno massa d’urto. Soltanto con le guerre sannitiche (343-295 a.C.) i romani iniziano a utilizzare la «legione manipolare», la loro prima grande innovazione vincente. Ovvero una differenziazione, relativamente standardizzata e coordinata, dell’attrezzatura dei vari combattenti e l’inquadramento in categorie diverse dei medesimi in base all’età e all’esperienza. E quasi un secolo dopo probabilmente arrivò l’altra grande novità: il pilum. Ovvero un giavellotto pensato per restare incastrato nello scudo dei nemici. Una volta colpito, l’avversario era obbligato ad abbandonare la sua protezione e veniva macellato dai romani che avanzavano colpendo di punta con i loro gladii. Ecco la chiave del successo: organizzazione e una tecnica efficace per scompaginare le fila nemiche.
L’uniformità delle divise, invece, spesso è stata aggiunta dai registi cinematografici. A esempio, durante le guerre puniche l’attrezzatura era ancora piuttosto varia e colorata e la maggior parte degli scudi era di foggia ovale. Le corazze? Ognuno se ne compra una e si arrangia, i cittadini più poveri vengono inseriti tra i velites (combattenti alla leggera): si piazzano sulle spalle una pelle di lupo per spaventare un po’ il nemico e poi via a fare azione di disturbo davanti alla fanteria pesante (sperando di non venir sminuzzati da un assalto ben fatto)...
Per avere i begli eserciti di professionisti che ci piace tanto vedere al cinema bisogna aspettare che la riforma militare di Gaio Mario (157-86 a.C.) faccia scuola. E ci vorrà più di un secolo. Ma anche su quei soldati imperiali che somigliano di più al nostro stereotipo mentale il libro di McNab potrebbe farvi scoprire cose nuove. Per dire, è vero che la cavalleria romana a lungo non ebbe le staffe, ma le selle avevano quattro protuberanze che stabilizzavano il combattente a cavallo. Meno male, altrimenti avrebbero avuto ragione Asterix e Obelix con quella loro famosa frase: «Sono pazzi questi romani».
Ma ciò che ci raccontano o ci fanno vedere, ha davvero qualcosa a che fare con la realtà? Il modo migliore per farsi un’idea sulla questione è leggere il saggio di Chris McNab appena pubblicato dalla LEG: L’esercito di Roma (pagg. 342, euro 32). McNab è uno dei massimi esperti inglesi di storia militare e i suoi testi illustrati, molti dei quali disponibili solo in inglese, sono un vero classico della materia. In L’esercito di Roma racconta tutto quanto che c’è da sapere sulla lorica hamata (la cotta di maglia che proteggeva i milites), il pilum (giavellotto) e la disposizione in battaglia delle legioni.
Il suo saggio parte dai primordi (l’Urbe al tempo dei re) e arriva sino al tardo Impero e ha il merito, grazie anche alle moltissime illustrazioni, di scardinare l’immagine stereotipata che tutti abbiamo in mente e che finiamo per sovrapporre a tutte le epoche della romanità: un legionario col mantello rosso e lo scudo quadrato coperto di un’armatura metallica lamellare (lorica segmentata).
Beh, in epoca arcaica i romani erano attrezzati né più né meno (spesso meno) come gli altri popoli latini: scudi di foggia varia, spesso alla greca, e scodelloni di bronzo sulla testa. Anche dopo, per lunghissimo tempo quella romana è rimasta una fanteria che combatteva alla maniera degli opliti greci: cittadini addestrati alla bell’e meglio che fanno massa d’urto. Soltanto con le guerre sannitiche (343-295 a.C.) i romani iniziano a utilizzare la «legione manipolare», la loro prima grande innovazione vincente. Ovvero una differenziazione, relativamente standardizzata e coordinata, dell’attrezzatura dei vari combattenti e l’inquadramento in categorie diverse dei medesimi in base all’età e all’esperienza. E quasi un secolo dopo probabilmente arrivò l’altra grande novità: il pilum. Ovvero un giavellotto pensato per restare incastrato nello scudo dei nemici. Una volta colpito, l’avversario era obbligato ad abbandonare la sua protezione e veniva macellato dai romani che avanzavano colpendo di punta con i loro gladii. Ecco la chiave del successo: organizzazione e una tecnica efficace per scompaginare le fila nemiche.
L’uniformità delle divise, invece, spesso è stata aggiunta dai registi cinematografici. A esempio, durante le guerre puniche l’attrezzatura era ancora piuttosto varia e colorata e la maggior parte degli scudi era di foggia ovale. Le corazze? Ognuno se ne compra una e si arrangia, i cittadini più poveri vengono inseriti tra i velites (combattenti alla leggera): si piazzano sulle spalle una pelle di lupo per spaventare un po’ il nemico e poi via a fare azione di disturbo davanti alla fanteria pesante (sperando di non venir sminuzzati da un assalto ben fatto)...
Per avere i begli eserciti di professionisti che ci piace tanto vedere al cinema bisogna aspettare che la riforma militare di Gaio Mario (157-86 a.C.) faccia scuola. E ci vorrà più di un secolo. Ma anche su quei soldati imperiali che somigliano di più al nostro stereotipo mentale il libro di McNab potrebbe farvi scoprire cose nuove. Per dire, è vero che la cavalleria romana a lungo non ebbe le staffe, ma le selle avevano quattro protuberanze che stabilizzavano il combattente a cavallo. Meno male, altrimenti avrebbero avuto ragione Asterix e Obelix con quella loro famosa frase: «Sono pazzi questi romani».
«Il Giornale» dell'8 gennaio 2012
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