Dai romanzi a quattro mani ai testi autobiografici il tratto caratteristico è la distanza dalle fedi perentorie
di Lorenzo Mondo
E’ nel 1972, con il successo della Donna della domenica, che il nome di Carlo Fruttero, accoppiato a quello di Franco Lucentini, diventa noto al grande pubblico. Ma egli aveva alle spalle una intensa attività di traduttore, che si era esercitata su autori di spicco (Nathanael West, Beckett, Ralph Ellison, Salinger) e aveva in particolare pubblicato nel 1959, con Sergio Solmi, Le meraviglie del possibile, un’antologia della fantascienza destinata a grande fortuna, che ebbe il merito di dare piena legittimità in Italia a quella che era considerata una letteratura minore, di puro intrattenimento. Egli si poneva fin da allora in una posizione eccentrica, capace di abbattere con le risorse della cultura e della scrittura ogni confine di «genere». E’ quello che accade anche con La donna della domenica, con il «giallo» che diventa una serrata indagine di costume, non meno pungente perché divertita, su Torino: una città rimasta a mezza via tra passato e futuro, tra i residui risorgimentali e le caotiche periferie industriali, dove il perbenismo si contamina con la trasgressione.
Soltanto filologi acuminati potrebbero assegnare, nella sapienza della costruzione e nell’alacrità della scrittura, la parte che spetta a ciascuno dei due autori, che procedono imperterriti a fare coppia nelle successive prove romanzesche: A che punto è la notte, Il palio delle contrade morte, L’amante senza fissa dimora (non dimenticando le sferzanti note, memori dei moralisti d’antan, che trovano il loro più vivace contrassegno nel volume intitolato La prevalenza del cretino). Mi sembra di poter cogliere l’indizio di una più personale disposizione nel brillante racconto Ti trovo un po’ pallida. Scritto nel 1979, appartiene al solo Fruttero e insinua nel contesto mondano di una assolata Maremma brividi onirici e visionari. Il pensiero corre allora allo straordinario Palio delle contrade morte, alla sfilata di fantasmi che denunciano nella piazza del Campo, insieme alle frodi e alle crudeltà della Storia, le compromissioni e le insolvenze di ciascuno nei confronti della propria vita.
Sia come sia, è negli scritti di Fruttero seguiti alla morte dell’amico Lucentini che ci muoviamo su un terreno sicuro. A trent’anni di distanza dalla Donna della domenica, Donne informate sui fatti ricorre ai meccanismi del romanzo poliziesco per indagare sull’assassinio di una immigrata che ha fatto fortuna. Ma l’inchiesta si estende dal truce fatto di cronaca a una intera città, ancora Torino, aggiornata sul mutare dei tempi. E l’emulo del commissario Santamaria sarà orientato alla soluzione del giallo da un coro di voci femminili, restituite alla brava nel loro vivace linguaggio, dissonante per anagrafe ed estrazione sociale. Risulta centrale, con i suoi risvolti dolenti, il tema dell’immigrazione. Ma l’interesse dell’autore è mosso più largamente dagli oscuri meandri del cuore, dalle passioni indomabili come l’avidità, l’assenza di pietà, la gelosia, l’orgoglio. Inclina a condividere con uno dei suoi personaggi l’idea di Schopenauer che «i cinque sesti dell’umanità fanno schifo, sono gentaglia». Il suo pessimismo assolve tuttavia la parte residua della specieumana che, con tutti i suoi difetti, si astiene dalla malvagità e merita di essere considerata con indulgente sorriso.
Il Fruttero più scoperto, e il suo commiato, lo troviamo in un libro, apparentemente minore, di capitoli autobiografici che viene intitolato, con ironico understatement, Mutandine di chiffon. Qui compaiono gli amici più cari, gli incontri avuti nel lavoro editoriale alla Einaudi e alla Mondadori, la Torino di sempre evocata con guardingo affetto nelle sue atmosfere, la Francia amatissima frequentata con Franco Lucentini. Bellissimi i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza nel Monferrato, in prossimità di un magico castello. Nella sua biblioteca Fruttero viene educato alla lettura, prima dei «gialli» Mondadori (quasi un presentimento) poi di libri più impegnativi, maturando «una passione feroce, esclusiva, come il gioco o il terrorismo, che fa sembrare insignificante qualsiasi altra cosa». Là apprende dall’impareggiabile signor conte, nelle varie «invasioni» del castello da parte di tedeschi, fascisti, partigiani un freddo, vigile distacco. Si affermano cioè certi tratti che saranno caratteristici di Fruttero, il suo disincanto dinanzi alle fedi perentorie, all’utopismo inscalfibile e, più in generale, all’autorità dei luoghi comuni. Oltre che della sua amicizia senza effusioni ma ferma, del suo magistero stilistico, sentiremo acutamente la mancanza anche di questo Fruttero, scrittore malgré lui civile.
Soltanto filologi acuminati potrebbero assegnare, nella sapienza della costruzione e nell’alacrità della scrittura, la parte che spetta a ciascuno dei due autori, che procedono imperterriti a fare coppia nelle successive prove romanzesche: A che punto è la notte, Il palio delle contrade morte, L’amante senza fissa dimora (non dimenticando le sferzanti note, memori dei moralisti d’antan, che trovano il loro più vivace contrassegno nel volume intitolato La prevalenza del cretino). Mi sembra di poter cogliere l’indizio di una più personale disposizione nel brillante racconto Ti trovo un po’ pallida. Scritto nel 1979, appartiene al solo Fruttero e insinua nel contesto mondano di una assolata Maremma brividi onirici e visionari. Il pensiero corre allora allo straordinario Palio delle contrade morte, alla sfilata di fantasmi che denunciano nella piazza del Campo, insieme alle frodi e alle crudeltà della Storia, le compromissioni e le insolvenze di ciascuno nei confronti della propria vita.
Sia come sia, è negli scritti di Fruttero seguiti alla morte dell’amico Lucentini che ci muoviamo su un terreno sicuro. A trent’anni di distanza dalla Donna della domenica, Donne informate sui fatti ricorre ai meccanismi del romanzo poliziesco per indagare sull’assassinio di una immigrata che ha fatto fortuna. Ma l’inchiesta si estende dal truce fatto di cronaca a una intera città, ancora Torino, aggiornata sul mutare dei tempi. E l’emulo del commissario Santamaria sarà orientato alla soluzione del giallo da un coro di voci femminili, restituite alla brava nel loro vivace linguaggio, dissonante per anagrafe ed estrazione sociale. Risulta centrale, con i suoi risvolti dolenti, il tema dell’immigrazione. Ma l’interesse dell’autore è mosso più largamente dagli oscuri meandri del cuore, dalle passioni indomabili come l’avidità, l’assenza di pietà, la gelosia, l’orgoglio. Inclina a condividere con uno dei suoi personaggi l’idea di Schopenauer che «i cinque sesti dell’umanità fanno schifo, sono gentaglia». Il suo pessimismo assolve tuttavia la parte residua della specieumana che, con tutti i suoi difetti, si astiene dalla malvagità e merita di essere considerata con indulgente sorriso.
Il Fruttero più scoperto, e il suo commiato, lo troviamo in un libro, apparentemente minore, di capitoli autobiografici che viene intitolato, con ironico understatement, Mutandine di chiffon. Qui compaiono gli amici più cari, gli incontri avuti nel lavoro editoriale alla Einaudi e alla Mondadori, la Torino di sempre evocata con guardingo affetto nelle sue atmosfere, la Francia amatissima frequentata con Franco Lucentini. Bellissimi i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza nel Monferrato, in prossimità di un magico castello. Nella sua biblioteca Fruttero viene educato alla lettura, prima dei «gialli» Mondadori (quasi un presentimento) poi di libri più impegnativi, maturando «una passione feroce, esclusiva, come il gioco o il terrorismo, che fa sembrare insignificante qualsiasi altra cosa». Là apprende dall’impareggiabile signor conte, nelle varie «invasioni» del castello da parte di tedeschi, fascisti, partigiani un freddo, vigile distacco. Si affermano cioè certi tratti che saranno caratteristici di Fruttero, il suo disincanto dinanzi alle fedi perentorie, all’utopismo inscalfibile e, più in generale, all’autorità dei luoghi comuni. Oltre che della sua amicizia senza effusioni ma ferma, del suo magistero stilistico, sentiremo acutamente la mancanza anche di questo Fruttero, scrittore malgré lui civile.
«La Stampa» del 16 gennaio 2012
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