Dopo il discorso del Papa alla Pontificia Accademia e il dibattito aperto da Boncinelli, Cavalli Sforza e D'Agostino il rischio è confondere, come Dawkins, polemica e verità
Di Fiorenzo Facchini
Una concezione totalizzante della ricerca, che voglia escludere la trascendenza e la possibilità di integrazione, pur nella distinzione, con altri processi conoscitivi, diventa scientismo. È una visione ancora operante nella cultura di oggi, ma anacronistica, che rivela la crisi del riduzionismo
Il fascino della scienza viene dal fatto che la conoscenza umana sembra non avere confini. La scienza, intesa come ambito di esplorazione della natura e della sua razionalità, rappresenta un campo privilegiato per allargare le conoscenze. Ma non si può ignorare un problema che di tanto in tanto si ripropone: Ci sono limiti o confini per la ricerca scientifica? Quali?
Domande non nuove, ma sempre di grande attualità, come dimostrano frequenti interventi di scienziati che rivendicano la libertà della scienza su riviste specializzate e su giornali di opinione. La vicenda referendaria dello scorso anno lo evidenziò. Eventi che si svolgono sotto i nostri occhi, dalla conferenza di Venezia sul futuro della scienza al Festival di Genova sulla scienza, sono occasioni per riproporcele. Per non parlare degli interventi di Benedetto XVI che anche nelle singole parole vengono passati al vaglio critico.
Parlare di limiti della scienza o richiamare problemi che non siano di natura meramente scientifica sembra evocare tempi da inquisizione e riportare all'epoca premoderna. Si tratti delle ricerche sulle cellule staminali o sul cervello o sull'evoluzione vengono rivendicati il valore conoscitivo della scienza, la libertà e l'autonomia della ricerca.
Alcuni recenti interventi di scienziati sulla stampa inducono a qualche riflessione. Mi riferisco a quelli di Edoardo Boncinelli (sul «Corriere della Sera»), che hanno preso lo spunto da alcuni rilievi fatti in campo cattolico a proposito del Festival della Scienza a Genova, e a quello di Luca e Francesco Cavalli Sforza (su «La Repubblica») relativo a un passo del recente discorso di Benedetto XVI alla Pontificia Università Lateranense. Come ha rilevato Francesco D'Agostino su questo giornale in un interessante dialogo con Boncinelli, sono fuori discussione i meriti e le possibilità della scienza. Ma non si deve pensare che la scienza sia l'unica forma valida di conoscenza o possa rispondere alle domande di senso che l' uomo si pone. In realtà non è la scienza, ma più spesso sono le persone che fanno scienza a voler trarre dalla scienza quello che la scienza non può dirci o a precludere altre forme di conoscenza. Le posizioni, polemiche e astiose, espresse anche recentemente da Dawkins su evoluzione e religione ne sono un esempio eclatante.
Ma forse il punto più critico che intercetta la ricerca scientifica rimane quello della tecnica che viene utilizzata e delle applicazioni dei risultati raggiunti. Benedetto XVI nel citato discorso ha osservato che "il contesto contemporaneo sembra dare il primato a un'intelligenza artificiale che diventa sempre più succube della tecnica sperimentale e dimentica in questo modo che ogni scienza deve pur sempre salvaguardare l'uomo e promuovere la sua tensione verso il bene autentico". Qualora ciò avvenisse si avrebbero conseguenze rovinose per l'uomo. Questo richiamo è stato visto da Luca e Francesco Cavalli Sforza (in una esegesi piuttosto parziale del testo), come una critica alla scienza sperimentale instaurata da Galileo, quasi "una seconda condanna e un ritorno a un passato lontano di secoli". A parte il fatto che la scienza e il metodo galileiano non possono esaurirsi nella tecnica sperimentale, per conoscere il pensiero del Papa su Galileo basterebbe rileggere il discorso fatto nel mese scorso a Verona nel Convegno ecclesiale. Certamente "la scienza usa la sperimentazione come mezzo per giungere alla verità", come viene affermato nel citato articolo. Ma anche la sperimentazione non è esente da giudizi di valore. Un sperimentazione che comportasse la morte o gravi danni a degli esseri umani sarebbe praticabile? Giovanni Paolo II ha osservato che «il progresso scientifico non può pretendere di situarsi in una sorta di terreno neutro. La norma etica, fondata nel rispetto della dignità delle persone deve illuminare e disciplinare tanto la fase della ricerca quanto quella dell'applicazione dei risultati in essa raggiunti» (Ai partecipanti di due Convegni di Medicina e Chirurgia, 27 ottobre, 1980).
Va inoltre rilevato che qui non è in gioco una verità di fede (e di verità, secondo gli autori dell'articolo, ce ne sarebbero tante quante le religioni…); è in gioco la ragione, la sua capacità di riconoscere il valore dell'uomo e quindi la verità dell'uomo.
Si affaccia il problema non nuovo del rapporto fra scienza e tecnica nella ricerca della verità mediante i mezzi della tecnica. Come pure diventa rilevante per il ricercatore il fine per cui la ricerca viene effettuata e l'uso che se ne potrà fare. La tecnica è ambivalente, «può essere impiegata per il bene come per il male» (Giovanni Paolo II, Agli scienziati di Colonia, 15.11.1980).
Non possono essere negate le istanze di ordine etico, nel momento stesso in cui viene affermata la libertà della ricerca e l'autonomia della scienza, riconosciuta anche dal Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 36). La ricerca, come la tecnica e la sperimentazione, sono subordinate al rispetto della dignità dell'uomo. E' una esigenza della verità dell'uomo.
Nella scienza ci sono poi dei confini dettati dall'orizzonte in cui ci si muove e dalle metodologie impiegate. Pretendere di andare oltre può essere una tentazione per il ricercatore. Ma se lo scienziato lo facesse nelle sue interpretazioni, dovrebbe esplicitarlo, così da non presentare come scienza la sua opinione.
Secondo l'accezione comune nella nostra cultura, la scienza si basa su quello che è osservabile e sperimentabile. Di conseguenza la sua competenza riguarda l'orizzonte conoscitivo delle scienze empiriche. Proprio per questo si tratta di una conoscenza parziale da integrare con altre forme di conoscenza, come quelle della filosofia e della teologia, per avvicinarsi alla verità delle cose e dell'uomo, come più volte ha rilevato Giovanni Paolo II e recentemente anche Benedetto XVI all'Università di Ratisbona. Lunedì Benedetto XVI nell'incontro con la Pontificia Accademia delle Scienze è tornato su questo argomento sollecitando una integrazione tra scienza, filosofia e teologia sia in ordine agli interrogativi più radicali dell'uomo sull'esistenza, sia per quanto si riferisce all'interpretazione di eventi passati e alla predicibilità di eventi futuri.
Una visione totalizzante della scienza, che voglia escludere la trascendenza e la possibilità di integrazione, pur nella distinzione, con altri approcci conoscitivi, diventa scientismo, un posizione ancora presente nella cultura contemporanea, ma anacronistica.
Nella riflessione epistemologica moderna si riconosce la crisi del riduzionismo e si avverte la necessità di superarlo ripensando gli stessi fondamenti delle scienze. Molti equivoci sorgono, oltre che dalla negazione di approcci diversi dal proprio, dalla confusione dei piani di conoscenza. A volte si giunge alla denigrazione e quasi all'accanimento verso chi non la pensa allo stesso modo. Le personali convinzioni non dovrebbero mai impedire il dialogo riconoscendo ciò che è specifico di ognuno e ricercando qualche base comune. La vera scienza non è mai settaria.
«Avvenire» dell’8 novembre 2006
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