di Antonio Scurati
Questi ragazzi vivono immersi in un ambiente violento. Il loro non è semplice bullismo. Sono violenti, sono depravati, sono cattivi». Così dice la preside della scuola torinese dove quattro studenti hanno seviziato un loro compagno disabile davanti a una telecamera, per poi diffondere su Google il video del loro misfatto. E' vero. Ha ragione la preside. Questi ragazzi sono violenti, sono depravati, sono cattivi. Sono i nostri ragazzi.
Riconoscerli come «nostri» non conduce a nessun indulgente sociologismo. Capire in che cosa sono «figli del nostro tempo» significa capire che il nostro tempo è il loro tempo. Che il mondo adulto non è più padrone in casa propria. Non è del tutto priva di fondamento la paranoia collettiva che spesso ci fa avvertire i giovani come un'orda di assalitori barbarici guidata dalla stella della predazione. La distanza tra le generazioni non è più stata percepita in modo tanto drammatico almeno dal '68 in qua. Ora, però, non essendoci più una precisa linea di demarcazione ideologica o di rivendicazione politica a dividere l'animale vecchio da quello giovane, l'inflessibile alterità dei «nostri» ragazzi risulta ancora più inquietante di allora. Appare quasi come l'effetto di una mutazione etologica. E' come se, in seno alla specie umana, si fosse prodotta una subspeciazione. La mutazione, però, è ovviamente culturale e tecnologica.
In primo luogo, non dobbiamo dimenticare che la sfrenatezza, sessuale e distruttiva, dei nostri ragazzi è il lato lugubre di un giubilante giovanilismo. La paranoia anti-giovanile è il rovescio del delirio giovanilistico. Oggi, buona parte della vita sociale, culturale ed economica degli adulti ruota attorno a un simulacro della giovinezza, pencolando tra idolatria e mercificazione. I corpi degli adolescenti sono al centro di un vero e proprio culto sociale e lo scatenamento della libido sessuale, tipico della pubertà, è incitato più che inibito dalla cultura dominante. Insomma, il nostro mondo è il loro mondo e loro ne fanno quello che vogliono. I quattordicenni che, in gruppo, si approfittano sessualmente di una loro insegnante, presumibilmente disturbata, in un bagno di una scuola dell'hinterland milanese come se fossero in un film porno, sembrano quasi eseguire un mandato collettivo. Sono la spia patologica di una normalità abnorme.
In secondo luogo, la loro sfrenatezza manifesta l'assenza del grande inibitore: il senso della morte. I nostri ragazzi sono i figli di una cultura che ha sottoposto a violenta rimozione il senso del tragico. La nostra cultura. Sono crudeli perché noi non gli abbiamo insegnato la morte e la sofferenza. La nostra morte. Morte e sofferenza non sono affatto un dato naturale, come credono gli sciocchi, ma un'esperienza costruita culturalmente. La crudeltà degli adolescenti è un difetto di immaginazione, è l'aberrazione del grande tema sacrificale: quando vedono qualcuno morire o soffrire, non pensano più «quello muore o soffre al posto mio», ma «quello muore o soffre e io no».
L'aspetto agghiacciante dell'episodio della scuola «Albe Steiner» di Torino non sta nel fatto che quattro adolescenti abbiano seviziato un loro compagno, ma che lo abbiano fatto per filmarlo. Hanno perpetrato e vissuto un gesto efferato come uno pseudo-evento, un accadimento creato appositamente per i media. Erano già gli spettatori di loro stessi mentre compivano il male. Questo il risultato della canonizzazione della posizione del telespettatore attuata dalla società dello spettacolo: si impara a rimanere impassibili e indifferenti dinanzi al dolore degli altri. Caso mai, intrattenuti e divertiti.
Noi adulti, d'altronde, li abbiamo educati a rimanere spettatori dinanzi a guerre televisive che provocano centinaia di migliaia di morti. Questo il mondo che abbiamo lasciato in eredità ai nostri ragazzi. Un mondo senza di noi. In questo mondo, infatti, gli «altri» non esistono se non come immagini in un video, simulacri e strumenti del nostro piacere di guardare. E noi adulti, è bene non dimenticarlo, siamo gli «altri» sugli schermi delle vite dei nostri figli.
«La Stampa» del 17 novembre 2006
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