Non sciamani o fattucchiere, ma la medicina tradizionale, con pratiche che resistono nelle diverse culture e tornano in auge per prevenire malattie fisiche e mentali. In Germania e Francia vi ricorrono l’80% dei malati. Parlano gli studiosi che operano in questo campo
di Chiara Zappa
Il futuro della salute globale è in mano agli stregoni. I guaritori tradizionali, dagli esperti di agopuntura in Cina ai maestri dell'ayurveda indiano fino ai saggi dell'unani arabo, sono depositari di conoscenze e abilità che hanno rotto i propri confini storici e sempre più fanno gola a molti. A chi, nel Sud del mondo, cerca di istituzionalizzare i rimedi tradizionali per far fronte a emergenze sanitarie fuori controllo, a chi quei rimedi studia - e qualche volta scippa - per svilupparne cure commercializzabili in tutto il mondo, a chi, stanco dell'equazione «disturbo=pillola» alla base della pratica medica occidentale, è affascinato da un approccio alla salute che mette al centro il benessere dell'uomo nel suo complesso. «Anche nel Nord del mondo le cure alternative hanno un impatto assolutamente crescente», conferma Elisabetta Minelli, del centro Collaborante Oms per la medicina tradizionale di Milano, che domani interverrà al Corso di formazione organizzato a Roma dal Centro orientamento educativo (assieme ad altre Ong e al Ministero degli Esteri) proprio sulla strategia dell'Organizzazione mondiale della sanità sulle medicine tradizionali. «Con questo termine intendiamo una serie di conoscenze e pratiche, dall'utilizzo delle piante fino al ricorso ai massaggi, basate sulle credenze e le esperienze indigene appartenenti alle diverse culture e volte al mantenimento della salute ma anche alla prevenzione, alla diagnosi e al trattamento di malattie fisiche e mentali», spiega Minelli. Pratiche e conoscenze accomunate da «un approccio olistico all'uomo e da una visione che si concentra sul benessere generale più che sul singolo disturbo». Proprio questa visione affascina sempre più anche i pazienti occidentali (quelli che hanno fatto ricorso almeno una volta a cure complementari e alternative sono il 42% negli Usa, il 70% in Canada, addirittura il 75% in Francia e l'80% in Germania), che manifestano anche un crescente disagio verso gli effetti collaterali dei farma ci di sintesi. Considerato che in Africa le cure tradizionali rappresentano l'80% della risposta sanitaria, mentre vari Paesi asiatici le hanno già integrate con i moderni sistemi di salute pubblica, non sorprende che l'Oms abbia messo in atto una strategia globale di regolamentazione. «Si punta - spiega Minelli - a incentivare legislazioni appropriate e a garantire l'accesso a queste cure, ma anche a moltiplicare le ricerche sulla fitoterapia, a monitorare sicurezza, efficacia e qualità dei prodotti, ad assicurare che sia chi pratica la medicina tradizionale sia chi ne fa uso lo faccia nella maniera più appropriata: da qui le molte linee guida per la formazione di professionisti che si adeguino a standard precisi in qualsiasi Paese del mondo».
E formare professionisti preparati è anche l'obiettivo dell'iniziativa partita dall'Università cattolica congolese del Kasay, che ha inserito corsi di medicina tradizionale all'interno della formazione degli studenti del ramo sanitario. «Queste tecniche rappresentano un'opportunità enorme in contesti segnati da povertà e scarsa accessibilità alle cure moderne: ecco perché vogliamo valorizzare le conoscenze indigene formando una nuova élite locale», spiega Célestin Pongombo Shongo, a capo del nuovo Dipartimento che porta avanti anche la ricerca sulle pratiche tradizionali, ne promuove l'integrazione nelle strutture sanitarie locali e, non da ultimo, «permette la conservazione delle conoscenze terapeutiche tramandate oralmente e assicura il "ricambio" di chi le sa utilizzare». Guaritori certificati, si potrebbe dire. Ma non è tutto qui, visto che l'azione dell'Università sta facendo emergere una nuova coscienza del valore della biodiversità locale, mentre gli studenti iscritti alla Facoltà del Kasay sono in crescita costante e l'insegnamento della medicina tradizionale è stato introdotto in altri Atenei del Paese.
Il motto del prof. Pongombo, «professionisti sanitari a due gambe terapeutiche», ha molto in comune con l'appro ccio di Keith Lindsey dell'Anamed, associazione tedesca che promuove, in vari paesi africani, l'uso della cosiddetta medicina naturale. «Si tratta di una combinazione dei vantaggi della medicina moderna e di quella tradizionale basata sulle erbe: basi scientifiche e standard igienici e di confezionamento uniti all'uso di risorse disponibili localmente, compatibilità con la cultura locale e massima accessibilità». Tra i progetti dell'Anamed, il cui scopo è «aiutare le comunità e il settore sanitario a rendersi autosufficienti nel far fronte ai propri bisogni di salute, soprattutto nelle aree rurali», spiccano gli interventi di cura della malaria con l'artemisia annua e il trattamento dell'Aids con una serie di piante tra cui la Moringa oleifera e l'aloe. «Abbiamo addirittura scoperto che alcuni rimedi vegetali prodotti localmente sono più efficaci dei farmaci moderni», spiega Lindsey. Un particolare che non è sfuggito alle compagnie farmaceutiche le quali sempre più spesso, grazie alla ricerca sui rimedi indigeni, scoprono nuove molecole che diventano poi i principi attivi di nuove pillole. I dati, d'altra parte, mostrano che il 25% delle medicine moderne sono prodotte con piante prima usate tradizionalmente. «Antitumorali come la vinblastina e la camptotechina provengono dal Madagascar, la podofillina dall'India», spiega Antonio Bianchi, responsabile dei progetti Coe sulla medicina tradizionale. La globalizzazione delle cure, oltre ad aprire «l'annosa questione dei diritti di proprietà intellettuale, rivendicati dai Paesi del Sud del mondo su piante che spesso vengono invece brevettate dalle compagnie farmaceutiche», porta alla luce anche altri risvolti. «La diffusione dei rimedi indigeni in Occidente, conseguente anche all'immigrazione, rischia di ridurre questi rimedi a dei prodotti, eliminando tutte le abilità, le conoscenze e i "riti" ad essi collegati». Bisogna vigilare, insomma, perché un patrimonio di pratiche e scienze del benessere non venga ridotto solo a d altre pillole da prescrivere distrattamente ad anonimi pazienti.
E formare professionisti preparati è anche l'obiettivo dell'iniziativa partita dall'Università cattolica congolese del Kasay, che ha inserito corsi di medicina tradizionale all'interno della formazione degli studenti del ramo sanitario. «Queste tecniche rappresentano un'opportunità enorme in contesti segnati da povertà e scarsa accessibilità alle cure moderne: ecco perché vogliamo valorizzare le conoscenze indigene formando una nuova élite locale», spiega Célestin Pongombo Shongo, a capo del nuovo Dipartimento che porta avanti anche la ricerca sulle pratiche tradizionali, ne promuove l'integrazione nelle strutture sanitarie locali e, non da ultimo, «permette la conservazione delle conoscenze terapeutiche tramandate oralmente e assicura il "ricambio" di chi le sa utilizzare». Guaritori certificati, si potrebbe dire. Ma non è tutto qui, visto che l'azione dell'Università sta facendo emergere una nuova coscienza del valore della biodiversità locale, mentre gli studenti iscritti alla Facoltà del Kasay sono in crescita costante e l'insegnamento della medicina tradizionale è stato introdotto in altri Atenei del Paese.
Il motto del prof. Pongombo, «professionisti sanitari a due gambe terapeutiche», ha molto in comune con l'appro ccio di Keith Lindsey dell'Anamed, associazione tedesca che promuove, in vari paesi africani, l'uso della cosiddetta medicina naturale. «Si tratta di una combinazione dei vantaggi della medicina moderna e di quella tradizionale basata sulle erbe: basi scientifiche e standard igienici e di confezionamento uniti all'uso di risorse disponibili localmente, compatibilità con la cultura locale e massima accessibilità». Tra i progetti dell'Anamed, il cui scopo è «aiutare le comunità e il settore sanitario a rendersi autosufficienti nel far fronte ai propri bisogni di salute, soprattutto nelle aree rurali», spiccano gli interventi di cura della malaria con l'artemisia annua e il trattamento dell'Aids con una serie di piante tra cui la Moringa oleifera e l'aloe. «Abbiamo addirittura scoperto che alcuni rimedi vegetali prodotti localmente sono più efficaci dei farmaci moderni», spiega Lindsey. Un particolare che non è sfuggito alle compagnie farmaceutiche le quali sempre più spesso, grazie alla ricerca sui rimedi indigeni, scoprono nuove molecole che diventano poi i principi attivi di nuove pillole. I dati, d'altra parte, mostrano che il 25% delle medicine moderne sono prodotte con piante prima usate tradizionalmente. «Antitumorali come la vinblastina e la camptotechina provengono dal Madagascar, la podofillina dall'India», spiega Antonio Bianchi, responsabile dei progetti Coe sulla medicina tradizionale. La globalizzazione delle cure, oltre ad aprire «l'annosa questione dei diritti di proprietà intellettuale, rivendicati dai Paesi del Sud del mondo su piante che spesso vengono invece brevettate dalle compagnie farmaceutiche», porta alla luce anche altri risvolti. «La diffusione dei rimedi indigeni in Occidente, conseguente anche all'immigrazione, rischia di ridurre questi rimedi a dei prodotti, eliminando tutte le abilità, le conoscenze e i "riti" ad essi collegati». Bisogna vigilare, insomma, perché un patrimonio di pratiche e scienze del benessere non venga ridotto solo a d altre pillole da prescrivere distrattamente ad anonimi pazienti.
«Avvenire» del 9 novembre 2006
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