I 56 testi sono legati a ricordi personali e alla cronaca, soprattutto degli anni ’70
di Silvio Ramat
Non dubito che qualcuno sarebbe disposto a sborsare cifre enormi per accaparrarsi, ove mai esistesse, l’ingiurioso epigramma indirizzato da Ugo Foscolo al ciabattino reo di avergli confezionato un paio di stivali troppo stretti; o il sirventese in cui Teofilo Folengo confida a una signora di detestare, lui mantovano, i tortelli di zucca. Ogni documento dei grandi è (forse) grande anch’esso. Grande o quantomeno prezioso. Ora, venendo a Montale, chi avanzerebbe riserve circa la sua «grandezza»? Non, certo, chi come il sottoscritto, per anagrafe e per elezione, abbia formato il proprio gusto su tre libri che si chiamano Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera. Un trentennio abbondante (1925-1956) di poesia italiana ed europea ne rimane tuttora improntato con mirabile autorevolezza. Dopo, si sa, quel poeta mosse per altre vie, tacque per un po’ e, nei primi anni ’60, ruppe un silenzio che implicava sfiducia nella residua funzione della poesia, se non tout court nel suo diritto di cittadinanza.
Quel clima produsse gli Xenia, incorporati poi in Satura; e via via le raccolte a «diario» e a «quaderno»: esiti di un poetare non più ispirato dalle Muse, o tutt’al più sorretto da una musa appartata e povera (un’idea di «arte povera» accomunava adesso le pratiche della poesia e della pittura, in Montale!). Salvo sporadiche eccezioni, era un attribuire all’evento-poesia gratuità e fortuità assolute, nell’irrevocabile rinuncia a qualsiasi registro sublime e selettivo. L’edizione degli Altri versi precedette di pochi mesi la morte del poeta: il quale volle farsi postumo a se stesso con un Diario dichiarato appunto postumo, un gruppo di liriche che la depositaria, Annalisa Cima, si vincolò a non divulgare per un determinato numero di anni. Di quel Diario, nel 1997, alcuni contestarono - almeno in parte - l’autenticità, e sul discrimine vero/falso parole grosse volarono fra le contrapposte schiere dei letterati, o più precisamente dei filologi.
Per la verità, quelle carte denotavano usura di meccanismi e trasandatezza nella resa espressiva: cascami di un filato ormai stinto. La griffe emergeva sì e no. Imitare il vecchio Montale non era - non è - difficile, e ci si chiede se con tutto quel che avevamo (abbiamo) di lui, ci fosse proprio bisogno di estrarre da archivî e da buste sigillate un materiale di così modesto livello. Altro valore si riconosce agli epistolarî, che potranno sì mettere a nudo le debolezze e le manie del personaggio, ma aggiungono pur sempre qualche dato notevole, delineando una relazione, una «società». Ma per le poesiole abbandonate allo stato brado, o poco più che di graffiti, è diverso. Comporre in libro simili relitti non giova; è sufficiente custodirli, scrupolo doveroso, in luoghi adibiti ad hoc: tale il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, costituito da Maria Corti e che tra i primi donatori annoverò proprio il poeta degli Ossi.
Da quel benemerito Fondo - e per lascito di Gina Tiossi, che governò per trentasette anni la casa del poeta, anzi la vita di lui fino agli ultimi giorni - provengono i testi che Renzo Cremante e Gianfranca Lavezzi pubblicano intitolandoli dal primo di essi, La casa di Olgiate e altre poesie (Mondadori, pagg. XIV-100, euro 9,40): primo e staccato dal resto della serie per la sua datazione alta, 1963, mentre i più sono invece del decennio ’70, con qualche pezzo anche dell’80. Spesso trattasi di epigrammi, o di brani in stesura provvisoria di componimenti inclusi poi nelle raccolte del «terzo» o del «quarto» tempo della poesia montaliana. Solo in questa luce (ma senza il lampo di effettive sorprese) l’appassionato lettore troverà un qualche motivo d’interesse, col sussidio dell’apparato critico allestito dai due esperti curatori. Della grafia, che da ultimo tocca la soglia dell’indecifrabile rendono conto alcune riproduzioni fuori testo: traversate a volte da righe verticali, cassature a mo’ di avvertimento. L’autore li giudica scritti da non pubblicare. E dunque?
Un esempio di frammento-epigramma: «Gli è mancata purtroppo l’autoironia/ (la più importante che sia)». Montale si riferisce al Pascoli: a ribadire la sua antipatia per l’autore delle Myricae serviva un sì futile codicillo? Quanto al profitto che traeva spesso da notizie ricevute dai giornali o dalla televisione, una vicenda di sanguinosa gelosia tra pennuti, oltre a fornirgli l’argomento per un articolo sul Corriere, induce Montale a quattro battute: «Scienziati tedeschi appostati/ hanno scoperto che all’aquila/ basta un colpo di becco per decapitare/ l’adultera». Compendio o promemoria, qual è il loro peso?
Analoga delusione suscitano i calchi e ricalchi del facile cachinno apocalittico di parecchie e sovrastimate pagine dei libri più tardi. «Se un’esplosione ha prodotto/ l’universo,/ non potrebbe un altro botto/ disgregarlo?»: in esercizio non c’è tanto la curiosità per le teorie scientifiche (con le avvisaglie di una «fine del mondo») quanto il sarcasmo e l’acrimonia di pronta beva che caratterizzano varî luoghi di «diario» e di «quaderno». E a proposito del graffio montaliano sulle miserie dell’attualità politica, basti citare altri quattro versi, del ’76, legati allo scandalo Lockheed (l’«antilope» è il nome in codice di uno tra i maggiori indiziati): «i giorni dell’antilope furono tormentosi/ i giornali ne dettero i connotati/ o almeno un attendibile identikit/ anche se non fornito di quattro zampe». Qualcuno li giudica spiritosi? Buon per lui.
Più godibili per contro, i frammenti affidati al ricordo. E se la lirica eponima reimpiega cari lemmi de La casa dei doganieri e del Giglio rosso, là dove tornano in scena Clizia, le amiche di lei e il loro mondo, il motore, di aneddoto in aneddoto, gira con più grata e persuasiva musica. Almeno questo.
Nel novembre 2005, il Fondo pavese inaugurava alla Biblioteca Cantonale di Lugano una mostra documentaria di autografi, disegni, lettere e libri, «Da Montale a Montale»: eccellente esposizione, che dall’autografo de I limoni e di altre liriche giovanili ci accompagna sino ai tempi recenti, offrendoci anche varietà e minuzie, nessuna delle quali riesce però superflua nell’illustrazione della fisionomia del poeta. Il n. 42 del catalogo è il «Quaderno per appunti» (legatoria Piazzesi, Venezia) su cui Montale vergò i 56 componimenti dell’odierno «Specchio». Il notificarli, trascriverli e descriverli è certo operazione utile. Meno opportuno e lecito, per ragioni qualitative, sarebbe il promuoverli a «libro», se da un «libro» ci si aspettano integrazioni dell’identità di un poeta: e sia pure, nella fattispecie, della disincantata, riduttiva immagine di poeta senior che Montale si compiaceva di incarnare. Insomma non ci s’illuda, appassionati lettori, di scoprire, su questi fogli inediti, qualcosa che risulti, nella sostanza, inedito: un barlume - quand’anche paradossale - di novità.
«Il Giornale» del 6 novembre 2006
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