di Luca Canali
L’ampio ritratto di Robert Harris pubblicato su Repubblica in occasione e a promozione dell’uscita del suo libro Imperium, (Mondadori, pagg. 355, euro 18,60) e poi la lettura del libro stesso, pongono alcuni problemi e fanno sorgere non poche perplessità.
Il testo apparso separato è un ritratto a tutto tondo di Cicerone, tracciato ricorrendo ai più noti luoghi comuni su una delle personalità invece più ricche e complesse della storia, della letteratura e della politica latine. Tuttavia la lettura ne è sufficientemente gradevole, anche se suscita ilarità il paragone dell’Arpinate con Bill Clinton, Tony Blair e David Cameron. A parte ciò, e deplorando l’uso insistito dell’aggettivo «smidollato» attribuito appunto a Cicerone, penso sia il caso di ricordare alcuni aspetti meno ovvi di questo grande personaggio dell’antichità classica.
Nel definire se stesso un oratore di scuola rodiese, evitando in tal modo di essere considerato un «asiano», compie una ingenua furberia: giacché egli è e resta uno scrittore asiano, cioè frondoso, sonoro, espertissimo nel costruire periodi mirabilmente ampi. E non è vero, come è detto in questo contesto, che l’asianesimo fosse tradizionalmente logorroico: esisteva infatti un asianesimo tutto spezzature e improvvisi scatti sintattici ad effetto, quale ad esempio poteva essere considerato già lo stile di Sallustio. D’altra parte la tradizione latina non era così inficiata di asianesimo: Catone il Censore ad esempio esortava così l’oratore: «rem tene, verba sequentur», cioè «tieni stretto l’argomento, le parole verranno»; altrettanto asciutta l’oratoria dei Gracchi; e la storiografia, ma anche l’oratoria di Cesare erano un esempio splendido della tendenza opposta all’asianesimo, definiti «atticismo», lineare, asciutta, di una sobria ed energica eleganza.
Forse era opportuna anche qualche considerazione in merito all’atteggiamento culturale di Cicerone: ad esempio egli non amava le «avanguardie», quali ad esempio il circolo dei poetae novi e di Catullo, ma era generosamente capace di elogiare opere che non rientravano nel suo canone di valori: famosa la sua definizione del poema di Lucrezio, tutto ispirato dall’odiato epicureismo, ma elogiato con queste parole: «multis luminibus ingenii, multae tam artis», e cioè «fornito di grande luminosità creativa ma anche di grande sapienza stilistica». Né si può insistere troppo sulla mancanza di spina dorsale di quest’uomo che verso il termine della vita ebbe il coraggio di scagliare le sue Filippiche contro Marco Antonio, e che seppe morire con estrema dignità offrendosi coraggiosamente al pugnale dei sicari del potente triumviro.
Ma veniamo al sontuoso libro Imperium. Prima di impegnarci in una breve discussione sul suo contenuto occorre chiedersi qual è la struttura e il prossimo futuro di questa forse troppo ambiziosa operazione editoriale: sono trecentocinquantatré pagine nel corso delle quali Tirone, lo schiavo poi liberto e infine fedele amico di Cicerone, narra la vita del suo «padrone» con uno stile gradevole e con una pregevole ma anche a volte eccessiva minuzia di particolari: e cioè la brillante carriera forense e politica, gli infiniti contatti con personaggi del ceto politico romano, i due momenti salienti di questa prima parte della vita dell’Arpinate, e cioè la battaglia forense in Sicilia contro Verre, poi, durante la pretura, la lunga e frenetica attività senatoriale dell’homo novus Cicerone, cioè «borghese» agiato; per raggiungere la carica più alta, anche se bipartita, del cursus honorum, il consolato.
E qui sorge spontanea la domanda: perché il libro si arresta alla vigilia di questa tappa, lasciando fuori la seconda parte - la più importante, politicamente e culturalmente - di questa lunga e infine tragica esperienza esistenziale? Nel 64 a.C. Cicerone aveva quarantadue anni, e morirà a sessantatré, ucciso, come si è detto, dai sicari del triumviro Marco Antonio; e in questi ventun anni ha scritto le sue opere più importanti e affrontato i rischi politici maggiori, conclusi dalla tragedia di Formia.
Nel risvolto di copertina si legge che Imperium è «il primo romanzo di una straordinaria trilogia». Ancora su Cicerone? O su altri personaggi di eccezionale rilievo, ad esempio, Cesare e Ottaviano? Ma allora perché la vita di Cicerone è qui interrotta in tronco? Non è questione da poco, e sia l’autore sia l’editore avrebbero dovuto essere più chiari in proposito e informare il lettore sul programma di questa trilogia per ora soltanto annunciata. Del resto il titolo Imperium fa pensare a una trilogia che giungerà appunto fino al passaggio traumatico dalla repubblica all’Impero.
Comunque questo «romanzo» lodevolmente documentato, o almeno attendibile, è indubbiamente apprezzabile, a parte certe lungaggini e qualche grevità linguistica (ad esempio l’aspirante console che «viene trombato», o a un altro che «fa il pieno di voti»). Ciò che invece spiace è la tendenza dell’autore a evitare ogni discorso di sostanza (e non solo di cronaca) politica. Spieghiamo: Cicerone «parte» amico dei populares e ammiratore di Gaio Mario, parente della sua famiglia, ma si sposta abbastanza rapidamente verso l’oligarchia senatoria, per finire col vagheggiare la concordia ordinum (un’alleanza della nobiltà e della borghesia ricca contro i populares: i «democratici» della sua gioventù e della sua lotta giudiziaria contro l’aristocratico Verre), e, subito dopo, il consensus omnium bonorum, alleanza di tutti gli «abbienti» di qualsiasi ceto, anche plebei e liberti (il senso di boni è appunto «galantuomini ricchi»).
In mancanza di questa visione, tutta la vicenda perde molto del suo interesse, e a volte si banalizza in una cronaca alquanto disanimata. Sempre per questa idiosincrasia all’approfondimento politico, necessario nel racconto del terribile I secolo a.C., l’autore scrive che Cicerone fece il «servizio militare», senza specificare che tale servizio significò la sua partecipazione alla guerra sociale, agli ordini di Pompeo Strabone, padre di Gneo Pompeo; e nel dar conto della crocifissione di migliaia di schiavi lungo la Via Appia, viene usata la generica definizione «schiavi ribelli», senza ricordare che essi avevano fatto parte dell’insurrezione generale degli schiavi capeggiata dal leggendario Spartaco, e che tale evento ebbe proporzioni così vaste da richiedere la mobilitazione generale degli eserciti capeggiati da Pompeo e Crasso.
Sarebbe stato troppo chiedere a un autore di fiction una maggiore profondità di analisi? Forse sì, anche perché l’autore dimostra di avere le carte in regola, e il libro ostenta una bibliografia di tutto rispetto. Ma aspettiamo comunque con grande interesse gli altri due libri della trilogia.
Il testo apparso separato è un ritratto a tutto tondo di Cicerone, tracciato ricorrendo ai più noti luoghi comuni su una delle personalità invece più ricche e complesse della storia, della letteratura e della politica latine. Tuttavia la lettura ne è sufficientemente gradevole, anche se suscita ilarità il paragone dell’Arpinate con Bill Clinton, Tony Blair e David Cameron. A parte ciò, e deplorando l’uso insistito dell’aggettivo «smidollato» attribuito appunto a Cicerone, penso sia il caso di ricordare alcuni aspetti meno ovvi di questo grande personaggio dell’antichità classica.
Nel definire se stesso un oratore di scuola rodiese, evitando in tal modo di essere considerato un «asiano», compie una ingenua furberia: giacché egli è e resta uno scrittore asiano, cioè frondoso, sonoro, espertissimo nel costruire periodi mirabilmente ampi. E non è vero, come è detto in questo contesto, che l’asianesimo fosse tradizionalmente logorroico: esisteva infatti un asianesimo tutto spezzature e improvvisi scatti sintattici ad effetto, quale ad esempio poteva essere considerato già lo stile di Sallustio. D’altra parte la tradizione latina non era così inficiata di asianesimo: Catone il Censore ad esempio esortava così l’oratore: «rem tene, verba sequentur», cioè «tieni stretto l’argomento, le parole verranno»; altrettanto asciutta l’oratoria dei Gracchi; e la storiografia, ma anche l’oratoria di Cesare erano un esempio splendido della tendenza opposta all’asianesimo, definiti «atticismo», lineare, asciutta, di una sobria ed energica eleganza.
Forse era opportuna anche qualche considerazione in merito all’atteggiamento culturale di Cicerone: ad esempio egli non amava le «avanguardie», quali ad esempio il circolo dei poetae novi e di Catullo, ma era generosamente capace di elogiare opere che non rientravano nel suo canone di valori: famosa la sua definizione del poema di Lucrezio, tutto ispirato dall’odiato epicureismo, ma elogiato con queste parole: «multis luminibus ingenii, multae tam artis», e cioè «fornito di grande luminosità creativa ma anche di grande sapienza stilistica». Né si può insistere troppo sulla mancanza di spina dorsale di quest’uomo che verso il termine della vita ebbe il coraggio di scagliare le sue Filippiche contro Marco Antonio, e che seppe morire con estrema dignità offrendosi coraggiosamente al pugnale dei sicari del potente triumviro.
Ma veniamo al sontuoso libro Imperium. Prima di impegnarci in una breve discussione sul suo contenuto occorre chiedersi qual è la struttura e il prossimo futuro di questa forse troppo ambiziosa operazione editoriale: sono trecentocinquantatré pagine nel corso delle quali Tirone, lo schiavo poi liberto e infine fedele amico di Cicerone, narra la vita del suo «padrone» con uno stile gradevole e con una pregevole ma anche a volte eccessiva minuzia di particolari: e cioè la brillante carriera forense e politica, gli infiniti contatti con personaggi del ceto politico romano, i due momenti salienti di questa prima parte della vita dell’Arpinate, e cioè la battaglia forense in Sicilia contro Verre, poi, durante la pretura, la lunga e frenetica attività senatoriale dell’homo novus Cicerone, cioè «borghese» agiato; per raggiungere la carica più alta, anche se bipartita, del cursus honorum, il consolato.
E qui sorge spontanea la domanda: perché il libro si arresta alla vigilia di questa tappa, lasciando fuori la seconda parte - la più importante, politicamente e culturalmente - di questa lunga e infine tragica esperienza esistenziale? Nel 64 a.C. Cicerone aveva quarantadue anni, e morirà a sessantatré, ucciso, come si è detto, dai sicari del triumviro Marco Antonio; e in questi ventun anni ha scritto le sue opere più importanti e affrontato i rischi politici maggiori, conclusi dalla tragedia di Formia.
Nel risvolto di copertina si legge che Imperium è «il primo romanzo di una straordinaria trilogia». Ancora su Cicerone? O su altri personaggi di eccezionale rilievo, ad esempio, Cesare e Ottaviano? Ma allora perché la vita di Cicerone è qui interrotta in tronco? Non è questione da poco, e sia l’autore sia l’editore avrebbero dovuto essere più chiari in proposito e informare il lettore sul programma di questa trilogia per ora soltanto annunciata. Del resto il titolo Imperium fa pensare a una trilogia che giungerà appunto fino al passaggio traumatico dalla repubblica all’Impero.
Comunque questo «romanzo» lodevolmente documentato, o almeno attendibile, è indubbiamente apprezzabile, a parte certe lungaggini e qualche grevità linguistica (ad esempio l’aspirante console che «viene trombato», o a un altro che «fa il pieno di voti»). Ciò che invece spiace è la tendenza dell’autore a evitare ogni discorso di sostanza (e non solo di cronaca) politica. Spieghiamo: Cicerone «parte» amico dei populares e ammiratore di Gaio Mario, parente della sua famiglia, ma si sposta abbastanza rapidamente verso l’oligarchia senatoria, per finire col vagheggiare la concordia ordinum (un’alleanza della nobiltà e della borghesia ricca contro i populares: i «democratici» della sua gioventù e della sua lotta giudiziaria contro l’aristocratico Verre), e, subito dopo, il consensus omnium bonorum, alleanza di tutti gli «abbienti» di qualsiasi ceto, anche plebei e liberti (il senso di boni è appunto «galantuomini ricchi»).
In mancanza di questa visione, tutta la vicenda perde molto del suo interesse, e a volte si banalizza in una cronaca alquanto disanimata. Sempre per questa idiosincrasia all’approfondimento politico, necessario nel racconto del terribile I secolo a.C., l’autore scrive che Cicerone fece il «servizio militare», senza specificare che tale servizio significò la sua partecipazione alla guerra sociale, agli ordini di Pompeo Strabone, padre di Gneo Pompeo; e nel dar conto della crocifissione di migliaia di schiavi lungo la Via Appia, viene usata la generica definizione «schiavi ribelli», senza ricordare che essi avevano fatto parte dell’insurrezione generale degli schiavi capeggiata dal leggendario Spartaco, e che tale evento ebbe proporzioni così vaste da richiedere la mobilitazione generale degli eserciti capeggiati da Pompeo e Crasso.
Sarebbe stato troppo chiedere a un autore di fiction una maggiore profondità di analisi? Forse sì, anche perché l’autore dimostra di avere le carte in regola, e il libro ostenta una bibliografia di tutto rispetto. Ma aspettiamo comunque con grande interesse gli altri due libri della trilogia.
«Il Giornale» del 1 novembre 2006
Nessun commento:
Posta un commento