Il libro «La Grande Quadriennale» ricostruisce la rassegna del 1935 che riunì nella capitale il patrimonio nazionale d’idee e di linguaggi
di Duccio Trombadori
Se il fascismo abusò fuori misura del mito di Roma, è anche vero però che l’opera compiuta per valorizzare l’immagine della capitale d’Italia come moderno centro della cultura e della identità nazionale fu tutt'altro che un omaggio retorico e parolaio. Nel corso degli anni Trenta, in piena dittatura, la città conobbe infatti un fastoso sviluppo urbanistico - Via della Conciliazione, sistemazione dei Fori Imperiali, nuovi quartieri, vie consolari, edifici pubblici, città universitaria, Cinecittà, Foro Mussolini, impianto dell’E42, odierna Eur - che ne sottolinea ancora oggi il profilo con uno stile rimasto insuperato.
Correva allora il fatidico 1935 e l’opera degli architetti si accompagnò a quella degli scultori e dei pittori, che nella capitale realizzarono i loro interventi murali, oltre le grandi mostre istituzionali che attirarono nella capitale le maggiori personalità artistiche del paese. L’apertura della seconda esposizione Quadriennale - la prima si era tenuta nel 1931 - coincise così con un momento di favorevoli aspettative e di relativo consenso alla dittatura e alla sua rivoluzione che con la vittoria nella guerra d’Etiopia pareva annunciare un’epoca di espansione, di pace, di riforme sociali e di affermazione dell’Italia come potenza europea. In questo clima di fiduciosa attesa - le tempeste sul mondo non si erano ancora addensate - gli artisti lavorarono ad una rassegna che ancora oggi stupisce per la straordinaria varietà di temi e stili accanto alla ricchezza e alla qualità espressiva dei partecipanti.
Dopo le avanguardie, negli anni Venti c’erano stati i movimenti di «Ritorno all’Ordine» e di «Novecento». Ma la Quadriennale romana del 1935 rivelò un imprevedibile e vitalissimo panorama di esperienze dell’arte italiana aperta in più direzioni: accanto alle prove del secondo futurismo, del razionalismo e dell’astrattismo, si misuravano le evoluzioni classicheggianti, tonali e metafisiche, oppure i saggi di intimismo paesaggista e le ricerche di maggiore evidenza espressiva e realista. I nomi degli espositori? Quasi tutti, se non proprio tutti, i migliori artisti italiani del XX secolo. Oltre ai già affermati Broglio, Carrà, Campigli, Casorati, Ceracchini, Conti, De Chirico, De Pisis, Donghi, Dudreville, Guidi, Magnelli, Melli, Morandi, Martini, Prampolini, Rosai, Severini, Sironi, Socrate, Soffici, Savinio, Tozzi, Tosi, Trombadori, Usellini e tanti altri, esponevano alcuni giovani che avrebbero fatto in seguito molto parlare di sé: Afro, Capogrossi, Cavalli, Cagli, Cantatore, Dottori, Gentilini, Guttuso, Levi, Licini, Lilloni, Mafai, Mirko, Marino Marini, Mannucci, Messina, Pirandello, Paulucci, Scipione, eccetera, eccetera.
È grande merito di Elena Pontiggia e Carlo Fabrizio Carli avere ricostruito il profilo della mostra in un libro-documento (La Grande Quadriennale 1935. La nuova arte italiana, i Quaderni della Quadriennale, Electa, nuova serie, pagg.280, euro 29) che prende in esame la complessa e articolata formazione degli inviti (700 artisti, 1800 opere esposte) nel vasto patrimonio di idee e di linguaggi allora operanti. Ne emerge un fuoco passionale di idee e di indagine critica che sorprende e interessa soprattutto al paragone del melenso «artisticamente corretto» dei giorni nostri, dove langue, per non dire che si è perso del tutto, ogni serio confronto di valore. Accanto ai nomi della migliore arte italiana, figurano così i testi di poeti, scrittori, storici dell’arte (tra gli altri Raffaele Calzini, Emilio Cecchi, Francesco Cangiullo, Giuseppe Marchiori, Edoardo Persico, Margherita Sarfatti, Leonardo Sinisgalli, Elio Vittorini) a conferma della integrazione culturale che il regime alimentava mettendo la città di Roma al centro della vita spirituale italiana.
La Grande Quadriennale, forte di un allestimento di prim’ordine (ad opera degli architetti Montuosi e Aschieri) stabilì così una efficace saldatura tra i momenti basilari dell’arte moderna italiana con protagonisti che avrebbero tenuto il campo anche nel nuovo assetto repubblicano (dall’astrattismo, al primitivismo, alle declinazioni espressioniste e tonali della Scuola romana). Una così preziosa partecipazione, la Quadriennale non riuscì più ad ottenerla, specchio com’era della fugace per quanto intensa stagione del consenso al regime e alla sua idea di «centralità romana» in fatto d’arte e di cultura. E quando si scorrono le pagine curate da Pontiggia e Carli, non manca la punta di nostalgia nel considerare la qualità dei frutti che quel progetto allora prometteva, e poi per tante ragioni finì col non produrre più.
Correva allora il fatidico 1935 e l’opera degli architetti si accompagnò a quella degli scultori e dei pittori, che nella capitale realizzarono i loro interventi murali, oltre le grandi mostre istituzionali che attirarono nella capitale le maggiori personalità artistiche del paese. L’apertura della seconda esposizione Quadriennale - la prima si era tenuta nel 1931 - coincise così con un momento di favorevoli aspettative e di relativo consenso alla dittatura e alla sua rivoluzione che con la vittoria nella guerra d’Etiopia pareva annunciare un’epoca di espansione, di pace, di riforme sociali e di affermazione dell’Italia come potenza europea. In questo clima di fiduciosa attesa - le tempeste sul mondo non si erano ancora addensate - gli artisti lavorarono ad una rassegna che ancora oggi stupisce per la straordinaria varietà di temi e stili accanto alla ricchezza e alla qualità espressiva dei partecipanti.
Dopo le avanguardie, negli anni Venti c’erano stati i movimenti di «Ritorno all’Ordine» e di «Novecento». Ma la Quadriennale romana del 1935 rivelò un imprevedibile e vitalissimo panorama di esperienze dell’arte italiana aperta in più direzioni: accanto alle prove del secondo futurismo, del razionalismo e dell’astrattismo, si misuravano le evoluzioni classicheggianti, tonali e metafisiche, oppure i saggi di intimismo paesaggista e le ricerche di maggiore evidenza espressiva e realista. I nomi degli espositori? Quasi tutti, se non proprio tutti, i migliori artisti italiani del XX secolo. Oltre ai già affermati Broglio, Carrà, Campigli, Casorati, Ceracchini, Conti, De Chirico, De Pisis, Donghi, Dudreville, Guidi, Magnelli, Melli, Morandi, Martini, Prampolini, Rosai, Severini, Sironi, Socrate, Soffici, Savinio, Tozzi, Tosi, Trombadori, Usellini e tanti altri, esponevano alcuni giovani che avrebbero fatto in seguito molto parlare di sé: Afro, Capogrossi, Cavalli, Cagli, Cantatore, Dottori, Gentilini, Guttuso, Levi, Licini, Lilloni, Mafai, Mirko, Marino Marini, Mannucci, Messina, Pirandello, Paulucci, Scipione, eccetera, eccetera.
È grande merito di Elena Pontiggia e Carlo Fabrizio Carli avere ricostruito il profilo della mostra in un libro-documento (La Grande Quadriennale 1935. La nuova arte italiana, i Quaderni della Quadriennale, Electa, nuova serie, pagg.280, euro 29) che prende in esame la complessa e articolata formazione degli inviti (700 artisti, 1800 opere esposte) nel vasto patrimonio di idee e di linguaggi allora operanti. Ne emerge un fuoco passionale di idee e di indagine critica che sorprende e interessa soprattutto al paragone del melenso «artisticamente corretto» dei giorni nostri, dove langue, per non dire che si è perso del tutto, ogni serio confronto di valore. Accanto ai nomi della migliore arte italiana, figurano così i testi di poeti, scrittori, storici dell’arte (tra gli altri Raffaele Calzini, Emilio Cecchi, Francesco Cangiullo, Giuseppe Marchiori, Edoardo Persico, Margherita Sarfatti, Leonardo Sinisgalli, Elio Vittorini) a conferma della integrazione culturale che il regime alimentava mettendo la città di Roma al centro della vita spirituale italiana.
La Grande Quadriennale, forte di un allestimento di prim’ordine (ad opera degli architetti Montuosi e Aschieri) stabilì così una efficace saldatura tra i momenti basilari dell’arte moderna italiana con protagonisti che avrebbero tenuto il campo anche nel nuovo assetto repubblicano (dall’astrattismo, al primitivismo, alle declinazioni espressioniste e tonali della Scuola romana). Una così preziosa partecipazione, la Quadriennale non riuscì più ad ottenerla, specchio com’era della fugace per quanto intensa stagione del consenso al regime e alla sua idea di «centralità romana» in fatto d’arte e di cultura. E quando si scorrono le pagine curate da Pontiggia e Carli, non manca la punta di nostalgia nel considerare la qualità dei frutti che quel progetto allora prometteva, e poi per tante ragioni finì col non produrre più.
«Il Giornale» del 6 novembre 2006
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