29 aprile 2011

Vi racconto chi sono i sultani rossi della tv

Nel saggio sull’informazione del grande giornalista, un capitolo devastante sui conduttori-divi dei talk targati Rai (e dintorni). Da Santoro alla Dandini, da Gruber a Lerner, dalla Annunziata a Floris, Pansa ne ha per tutti

di Giampaolo Pansa

Esce il 4 maggio Carta straccia. Il po­tere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, pagg. 412, euro 19,90) di Giampaolo Pansa. Un ritratto impie­toso del mondo dell’informazione, dalla carta stampata alla televisio­ne. I giornali, nessuno escluso, sono sempre più faziosi. Eppure c’è chi non vuole ammetterlo e si presenta come immune da ogni partigiane­ria. È il caso di testate come la Re­pubblica, L’espresso e, talvolta, del Corriere della Sera. Spesso, dietro alla millantata obiettività si cela l’os­sessione anti-Cavaliere, la volontà di distruggerlo con ogni mezzo, in­cluse le inchieste scandalistiche sul­la vita privata (cinicamente tirate fuori per motivi di tirature: il gossip «politico» ha risollevato le vendite di Repubblica). Storia personale (Pansa è uno dei più grandi giornali­sti italiani) e pubblica si intrecciano in un affresco accurato. Non manca­no parti esilaranti, come l’incredibi­le rassegna delle smentite pubblica­te dai quotidiani colti in castagna. Per gentile concessione dell’auto­re, presentiamo, in queste pagine, due stralci dal libro, il primo dedica­to ai telepredicatori di sinistra, il se­condo a Carlo De Benedetti, editore di Repubblica ed Espresso, giornali nei quali Pansa ha lavorato per mol­ti anni, ricoprendo cariche impor­tantissime



Santoro si era sempre fatto notare per lo stile e le qualità del leader politico. Per comincia­re, risultava il più anzia­no dei sultani rossi. Nel luglio 2011 quella parte d’Ita­lia che lo ama festeggerà a dovere il suo sessantesimo complean­no. Poi era il televisionista rosso di più lunga durata. Stava sugli al­tari dal 1987, quando aveva 36 an­ni e ancora esisteva la Prima re­pubblica. Il successo iniziale fu Samarcanda , seguito da Il rosso e il nero del 1992, entrambi su Rai 3. In quel tempo Michele era ma­gro, astuto e ambiguo quanto oc­correva. Nell’ottobre del 1991 an­dai a intervistarlo per l’Espresso . E mi resi conto che era sicura­mente di sinistra, ma la sua fedel­tà andava a un solo partito rosso: quello di Santoro. Con un timbro anarco-popu­­lista, forse derivato dalla militanza giova­ni­le in un gruppo ma­oista: Servire il popo­lo. Per la Prima repub­bl­ica erano tempi tra­gici. I politici appari­vano stremati e si tro­vavano sull’orlo del­l’abisso di Tangento­poli. Santoro me li de­s­crisse con la sicurez­za del ras televisivo che si sente sempre più forte. Disse: «I partiti non saranno così stupidi da taglia­re la lingua a Samar­canda . Noi siamo matti, imprevedibili e liberi. E continuere­mo a rompere. Io rompo o sto zit­to: non vedo vie di mezzo». Poi mi spiegò: «Non è vero che il successo di Samarcanda mi ab­bia dato alla testa. Io sono un to­po in mezzo agli elefanti dei parti­ti. Saltello per evitare che le loro zampe mi schiaccino. Se mi sal­vo, continuerò a rompere. I politi­ci possono starne sicuri». Santoro si sentiva il capo di una forza personale che poteva deci­dere con chi allearsi o no. Per que­sto, all’improvviso, scelse di pas­sare sul fronte opposto alla Rai: Mediaset, la corazzata di Berlu­sconi. Anche nel fortino del Cava­l­iere mise in mostra un’invidiabi­le capacità nel trattare gli affari. Ottenne uno stipendio da nabab­bo, più l’assunzione di tutta la sua squadra con il massimo dei compensi. E costruì un altro talk show di successo: Moby Dick nel 1996. Ma al Cavaliere, più furbo di tanti suoi dirigenti, Michele non piaceva. In lui fiutava l’avversa­rio, ben piazzato su un terreno in­sidioso: la televisione. Per di più, gli stava sui santissimi per la sua aria da padrone. Lo liquidò. E Santoro divenne il primo dei Grandi epurati, messi fuori dalla tv grazie agli editti del Cavaliere. Michele ritornò in Rai. Poi la si­nistra, sempre generosa con i di­vi della tv, gli offrì una exit stra­tegy di lusso: il 14 giugno 2004 lo fece eleggere deputato europeo. Ma il Parlamento di Strasburgo era il posto più noioso del mondo per una star da battaglia come lui. Santoro sopportò per meno di due anni il fastidio di doverlo frequentare. Poi si dimise. E nel 2006 decise di rincasare in viale Mazzini. E diede vita a un nuovo programma: Annozero . Sotto questa bandiera, Santoro inaugurò un’altra stagione perso­nale: il conduttore da guerra. Contro chi? Ma che domanda! Contro il suo vecchio padrone privato: Berlusconi. Il nemico da sconfiggere, il demonio da scac­ciare, il caimano da uccidere. Di­venne il più mussoliniano fra i sultani rossi dei talk show. E ogni giovedì, in prima serata su Rai 2, riprese a imporci il proprio co­mandamento: credere, obbedire e combattere. Sempre con lo stes­so obiettivo: mandare a gambe al­­l’aria il tiranno di Arcore. Il pubblico di sinistra continuò ad adorarlo. Santoro era la prova vivente che il regime fascista del Cavaliere esisteva, ma poteva es­sere battuto. Nella scala gerarchi­ca della Rai, Michele iniziò a con­t­are più di dieci Paolo Garimber­ti, il presidente. E più di Mauro Masi, un direttore generale sen­za un potere reale nei confronti di Annozero. Ma nel paese dei ba­locchi televisivi, tutto è volatile. La forza di un programma e di un conduttore può sparire di colpo, o attenuarsi a ritmi terrificanti. È quel che accadde a Santoro verso la metà del novembre 2010. Quando il nuovo spettacolo di Fa­zio & Saviano cominciò a fare ascolti mirabolanti, confinando Annozero nell’angolo dei perden­ti, sia pure provvisori. [...] Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò, mi appariva il Santoro dei poveri, formato Festa del­l’Unità, quella del tempo che fu. Aveva di continuo l’ansia di non poter risultare abbastanza rosso. Ma ci riusciva ogni volta. La scel­ta degli ospiti era bipartisan. Non così il suo atteggiamento.
Il com­pagnone di Ballarò si mostrava sempre amichevole nei confron­ti degli invitati di sinistra. Nei mo­menti di difficoltà, costoro sape­vano di poter contare sul suo aiu­to, offerto con lo zelo di un croce­rossino fedele nei secoli. Ma con gli interlocutori di destra, la musi­ca cambiava di colpo. Con loro Floris sfoderava l’al­tro lato di se stesso. Diventava ge­lido e spesso scioccamente irri­dente. Li interrompeva, li silen­ziava, li metteva alle strette. In­somma, un capoclasse perfetto: buono con i buoni, cattivo con i cattivi. E in molti casi pomposo. Con il vezzo ridicolo di celebrare se stesso: lo vedete quanto sono imparziale, liberale, democrati­co? Una sua gemella era Lucia An­nunziata, la regina di In mez­z’ora.
Di lei rammento l’affanno di mandare al tappeto l’ospite che aveva di fronte per trenta mi­nuti filati. Se chi s’azzardava a se­dersi davanti a lei apparteneva al giro politico opposto al suo, an­che un bambino avrebbe subito intravisto il difetto di Lucia. A lei non interessavano le rispo­ste dell’interlocutore, ma soltan­to le proprie domande. Che dove­vano sempre risultare aggressi­ve, grintose, insomma cazzute, se posso usare per una signora questo lessico da bettola. Una so­la volta toccò a Lucia di andare ko. Accadde con quel satanasso di Berlusconi. Il Caimano si alzò e la piantò in asso, sola e abban­donata in piena diretta tv. Un’altra dama sinistra era Sere­na Dandini, la regina di Parla con me, famosa per il divano ros­so. E dal martedì al venerdì sem­pre disposta ad accogliere chiap­pe eccellenti dell’opposizione al cavaliere.
Da lei erano passati Eu­genio Scalfari, Ezio Mauro, Bill Emmott, l’ex direttore dell’ Eco­nomist , Stefano Rodotà, Massi­mo Cacciari, Carlo Azeglio Ciam­pi, Guglielmo Epifani, Sabrina Fe­rilli, Antonio Tabucchi, Corrado Augias e tanti altri avversari del Berlusca. Davanti a Scalfari e alla sua sa­cra barba bianca, Serena cadde in deliquio. Era seduta accanto a lui, ma sembrava in ginocchio. Pronta a incoronare ogni rispo­sta, anche la più banale, con la sua entusiastica risata. Un gior­no, Pietrangelo Buttafuoco disse di lei:«Ha l’espressione un po’ co­­sì, di quelli che ridono pure in un cimitero». Aldo Grasso, il critico televisivo del Corriere della Sera , il più acu­to tra quelli a disposizione dei let­tori di quotidiani, fu spietato con madama Dandini. Scrisse: «Ride in continuazione per sottolinea­re la sua ironia e la sua intelligen­za, caso mai fossero sfuggite».
Poi aggiunse: «Da un program­ma che impiega tredici autori e la consulenza di altri quattro, ci si aspetterebbe qualcosa di più di una mini fiction dopolavoristi­ca». Risultato? Un continuo calo d’ascolti. A Santoro & C. si potevano ag­giungere altre eccellenze rosse che non dipendevano dalla Rai. Consideriamo il caso di La7, una rete privata e senza obbligo di ca­none per l’utente. Qui a domina­re era Lilli Gruber, già parlamen­tare europea di sinistra, che ogni sera metteva in mostra la propria militanza. Sempre piacevole a ve­dersi, ma soltanto per la sua bel­lezza e per l’eleganza by Armani. Confesso che ad affascinarmi era l’eterna giovinezza della contur­bante Dietlinde, con quel viso di porcellana senza età,un’attrazio­ne irresistibile per un maschio dai capelli bianchi.
Anche per questo dettaglio, mi domandavo perché mai dimenti­casse il proprio ruolo. Per tramu­tarsi da conduttrice in uno dei liti­ganti inviati al suo Otto e mezzo. Con il risultato di far scrivere al­l’implacabile Grasso del Corriero­ne : «La Gruber rappresenta un vecchio modo di fare giornali­smo. Nel suo programma non c’è mai un percorso di conoscenza, ma solo uno scontro di opinioni, una parata di idee contrastanti». In questo scontro, Lilli voleva sempre vincere. Per arrivare a questo risultato, adottava spesso il sistema del due contro uno. I due, tutti anti-Cav, erano lei e uno degli invitati, entrambi nemi­ci giurati del Caimano. L’uno era un ospite di centrodestra, desti­nato fatalmente a soccombere. E non metto nel conto il filmato di Paolo Pagliaro che, ogni sera, of­friva il proprio soccorso rosso. Più o meno lo stesso era quel che pensavo a proposito di un al­tro programma di La7: L’Infedele di Gad Lerner. Ecco l’ennesimo talk show da combattimento. Sempre contro il maledetto Cava­liere. E per questo noioso e bana­­le, da non guardare. Mai una sor­pr­esa né un guizzo di genialità im­prevista. Ma in fondo era il ritratto to del suo autore.
Da tempo Lerner stava immer­so in una fantastica regressione politica. Che lo aveva sospinto all’indietro nel tempo. Ossia agli anni Settanta, quando Gad s’illu­deva di fare la rivoluzione prole­taria nelle file di Lotta continua. Allora aveva perso e la sconfitta si era mutata in un incubo desti­nato a perseguitarlo. Come una condanna a cercare di continuo una vittoria che l’ascolto ridotto seguitava a negargli. [...] Molto più interessante di Ser­ra (Michele, ndr), risultava il per­sonaggio di Fazio, la cui presa di posizione a vantaggio della sini­stra era scoperta, scopertissima. Nonostante questo, amava inter­pretare il ruolo opposto al televi­sionista settario. Era quello dell’abatino estra­neo a qualsiasi parrocchia, ami­co di tutti e nemico di nessuno. Con l’aria dimessa, l’espressio­ne sempre stupita, il vestito stra­fugnato del ragazzo di provincia capitato per caso in un posto e in una funzione che non ritiene di meritare. In realtà, nella Rai odierna fran­tumata in sultanati, Fazio era il più sultano di tutti. Un signore gelido, capace di muoversi sen­za guardare in faccia nessuno, curatore attento dei propri co­modi. E all’occorrenza anche cat­tivo.
Con la manina avvolta nella flanella grigia e lo stiletto avvele­nato ben nascosto. Era con que­sta lama che Fazio, nel suo pro­gramma abituale, Che tempo che fa, praticava una censura inflessi­bile. Truccata da libertà di scel­ta, quella che spetta a tutti i con­duttori di talk show. In realtà, il pallido Fabio non sceglieva, ma discriminava. Gestendo in mo­do autoritario il potere di pro­muovere libri e autori. Un regi­me accettabile in una tv privata, però non alla Rai. Che è pur sem­pre pagata dal canone sborsato dai «tutti» ai quali Saviano vole­va parlare.


«Il Giornale» del 29 aprile 2011

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