di Alessandro Zaccuri
«Mi senti, Ettore Schmitz? Hai idea del fardello che ci hai lasciato? Potevamo restare beati nell’ordine piccolo borghese di realtà strutturate, ordinate, salutari. E invece». E invece l’industriale Ettore Schmitz ha scelto di diventare lo scrittore Italo Svevo ed è per questo che Pietro Spirito, al termine del recentissimo Trieste è un’altra (Mauro Pagliai Editore) si spinge fino al cimitero di Sant’Anna, nel tentativo di regolare i conti con l’autore di Senilità e La coscienza di Zeno.
Impresa difficile, ma con la quale è bene cimentarsi in questi giorni, che precedono il 150mo anniversario della nascita del grande narratore triestino (19 dicembre 1861: morì a Motta di Livenza il 13 settembre 1928). «Un anniversario che coincide con quello dell’Unità d’Italia», sottolinea il critico Elio Gioanola, autore tra l’altro di un’appassionata Svevo’s Story apparsa un paio di anni fa da Jaca Book. «È una circostanza suggestiva – prosegue lo studioso –, perché ci ricorda come il fatto di scrivere in italiano sia il risultato di una scelta deliberata da parte di un autore che avrebbe potuto benissimo esprimersi in tedesco. Nonostante, questo, la sua rimane una figura profondamente radicata nella cultura mitteleuropea, come dimostra la presenza della psicoanalisi all’interno del suo capolavoro.
Nella Coscienza di Zeno, infatti, l’iniziale scetticismo del protagonista nei confronti del “dottore”, trattato spesso con ironia e distacco, va di pari passo con l’impossibilità di fare a meno della strumentazione psicoanalitica, che permette a Svevo di dare ulteriore profondità al suo antieroe. Non è più il personaggio caro alla tradizione classica, obbediente ai princìpi che si è imposto e ai quali rimane fedele, ma un tipo d’uomo simile alle creature del “sottosuolo” indagate da Dostoevskij: a guidarlo è una forza misteriosa ed estranea, che gli impedisce sempre di mandare a segno il colpo.
Gli errori che ne derivano possono risultare fruttuosi, ma questo non scalfisce in nulla il sostanziale pessimismo di Svevo, che trova espressione nella celebre conflagrazione planetaria con cui si chiude La coscienza di Zeno. La stessa intelligenza si ritorce contro l’uomo, gli impedisce di essere felice, lo porta a desiderare la distruzione. Si tratta della rappresentazione più drastica del “male di vivere” cantato da Montale, che non a caso fu uno dei primi e più attenti lettori di Svevo». Un malessere che esclude la spiritualità? «Svevo – risponde Gioanola – appartiene a quel genere di autore novecentesco per cui la letteratura ha sostituito la fede perduta come occasione di apertura verso un “oltre” che però non si connota mai in senso pienamente religioso».
Le origini ebraiche di Svevo/Schmitz sono sottolineate con vigore dallo scrittore Giorgio Pressburger, ungherese di nascita e triestino d’elezione: «Grazie a lui – spiega – fa il suo ingresso nella letteratura italiana questa specifica sfumatura spirituale che ritroveremo, per esempio, in Primo Levi.
E non dimentichiamo che proprio attraverso il legame con Svevo, di cui fu docente di inglese a Trieste, Joyce fornì un’interiorità ebraica al protagonista del suo Ulisse, Leopold Bloom. Anche in questo Svevo si conferma un maestro nell’arte dell’intreccio, sempre desideroso di trovare un punto di equilibrio fra mondi altrimenti inconciliabili, come il Mediterraneo e l’Europa centrale, che proprio a Trieste vengono a incontrarsi in senso culturale e perfino architettonico. «Sarà un caso, ma Svevo è stato uno dei primi autori in cui mi sono imbattuto quando, nel 1956, ho lasciato l’Ungheria.
Avevo già studiato italiano e conoscevo qualche scrittore, ma il suo nome mi era del tutto sconosciuto. È stato un incontro folgorante, che continua a segnarmi anche oggi. Mi colpisce la sua lingua, così spoglia e a tratti addirittura scorretta. E trovo affascinante la sua visione del mondo che, anche senza attingere al pessimismo di Kafka, è testimonianza di un “non-ottimismo” molto problematico sul piano religioso. In Svevo, infatti, la grande assente non è la fede, ma la Provvidenza».
Si spinge più in là il direttore di «Civiltà cattolica», padre Antonio Spadaro: «Svevo rimane un grandissimo scrittore, sia chiaro – premette –, ma questa grandezza costituisce il suo limite. Ogni volta che lo rileggo, non trovo nelle sue pagine la gloria della realtà, che apre alla conoscenza del mondo e rende possibile la condivisione fra autore e lettore.
Al contrario, Svevo tende a portare in primo piano la propria dimensione psicologica, trasformandola in un filtro che diventa a sua volta ossessione. In questo, mi pare che la sua opera inauguri e porti precocemente a compimento la tendenza novecentesca a sostituire la tensione spirituale con l’indagine psicologica.
Non si tratta di un’operazione innocente, perché in questo modo il mistero si riduce a qualcosa di freddamente analizzabile e la stessa dimensione spirituale finisce sul tavolo dell’anatomopatologo: la coscienza diventa nevrosi, l’interiorità viene assimilata a una malattia. Con i suoi romanzi Svevo mette in atto un rovesciamento radicale dell’introspezione avviata da Agostino nelle Confessioni, un libro in cui, al contrario, penetrare nel segreto di sé rappresenta la condizione necessaria per esplorare il mistero del mondo. Nella Coscienza di Zeno questo non avviene, perché vienen meno l’alleanza fra letteratura e realtà. E questo, almeno per me, è un problema serio».
Impresa difficile, ma con la quale è bene cimentarsi in questi giorni, che precedono il 150mo anniversario della nascita del grande narratore triestino (19 dicembre 1861: morì a Motta di Livenza il 13 settembre 1928). «Un anniversario che coincide con quello dell’Unità d’Italia», sottolinea il critico Elio Gioanola, autore tra l’altro di un’appassionata Svevo’s Story apparsa un paio di anni fa da Jaca Book. «È una circostanza suggestiva – prosegue lo studioso –, perché ci ricorda come il fatto di scrivere in italiano sia il risultato di una scelta deliberata da parte di un autore che avrebbe potuto benissimo esprimersi in tedesco. Nonostante, questo, la sua rimane una figura profondamente radicata nella cultura mitteleuropea, come dimostra la presenza della psicoanalisi all’interno del suo capolavoro.
Nella Coscienza di Zeno, infatti, l’iniziale scetticismo del protagonista nei confronti del “dottore”, trattato spesso con ironia e distacco, va di pari passo con l’impossibilità di fare a meno della strumentazione psicoanalitica, che permette a Svevo di dare ulteriore profondità al suo antieroe. Non è più il personaggio caro alla tradizione classica, obbediente ai princìpi che si è imposto e ai quali rimane fedele, ma un tipo d’uomo simile alle creature del “sottosuolo” indagate da Dostoevskij: a guidarlo è una forza misteriosa ed estranea, che gli impedisce sempre di mandare a segno il colpo.
Gli errori che ne derivano possono risultare fruttuosi, ma questo non scalfisce in nulla il sostanziale pessimismo di Svevo, che trova espressione nella celebre conflagrazione planetaria con cui si chiude La coscienza di Zeno. La stessa intelligenza si ritorce contro l’uomo, gli impedisce di essere felice, lo porta a desiderare la distruzione. Si tratta della rappresentazione più drastica del “male di vivere” cantato da Montale, che non a caso fu uno dei primi e più attenti lettori di Svevo». Un malessere che esclude la spiritualità? «Svevo – risponde Gioanola – appartiene a quel genere di autore novecentesco per cui la letteratura ha sostituito la fede perduta come occasione di apertura verso un “oltre” che però non si connota mai in senso pienamente religioso».
Le origini ebraiche di Svevo/Schmitz sono sottolineate con vigore dallo scrittore Giorgio Pressburger, ungherese di nascita e triestino d’elezione: «Grazie a lui – spiega – fa il suo ingresso nella letteratura italiana questa specifica sfumatura spirituale che ritroveremo, per esempio, in Primo Levi.
E non dimentichiamo che proprio attraverso il legame con Svevo, di cui fu docente di inglese a Trieste, Joyce fornì un’interiorità ebraica al protagonista del suo Ulisse, Leopold Bloom. Anche in questo Svevo si conferma un maestro nell’arte dell’intreccio, sempre desideroso di trovare un punto di equilibrio fra mondi altrimenti inconciliabili, come il Mediterraneo e l’Europa centrale, che proprio a Trieste vengono a incontrarsi in senso culturale e perfino architettonico. «Sarà un caso, ma Svevo è stato uno dei primi autori in cui mi sono imbattuto quando, nel 1956, ho lasciato l’Ungheria.
Avevo già studiato italiano e conoscevo qualche scrittore, ma il suo nome mi era del tutto sconosciuto. È stato un incontro folgorante, che continua a segnarmi anche oggi. Mi colpisce la sua lingua, così spoglia e a tratti addirittura scorretta. E trovo affascinante la sua visione del mondo che, anche senza attingere al pessimismo di Kafka, è testimonianza di un “non-ottimismo” molto problematico sul piano religioso. In Svevo, infatti, la grande assente non è la fede, ma la Provvidenza».
Si spinge più in là il direttore di «Civiltà cattolica», padre Antonio Spadaro: «Svevo rimane un grandissimo scrittore, sia chiaro – premette –, ma questa grandezza costituisce il suo limite. Ogni volta che lo rileggo, non trovo nelle sue pagine la gloria della realtà, che apre alla conoscenza del mondo e rende possibile la condivisione fra autore e lettore.
Al contrario, Svevo tende a portare in primo piano la propria dimensione psicologica, trasformandola in un filtro che diventa a sua volta ossessione. In questo, mi pare che la sua opera inauguri e porti precocemente a compimento la tendenza novecentesca a sostituire la tensione spirituale con l’indagine psicologica.
Non si tratta di un’operazione innocente, perché in questo modo il mistero si riduce a qualcosa di freddamente analizzabile e la stessa dimensione spirituale finisce sul tavolo dell’anatomopatologo: la coscienza diventa nevrosi, l’interiorità viene assimilata a una malattia. Con i suoi romanzi Svevo mette in atto un rovesciamento radicale dell’introspezione avviata da Agostino nelle Confessioni, un libro in cui, al contrario, penetrare nel segreto di sé rappresenta la condizione necessaria per esplorare il mistero del mondo. Nella Coscienza di Zeno questo non avviene, perché vienen meno l’alleanza fra letteratura e realtà. E questo, almeno per me, è un problema serio».
«Avvenire» del 17 dicembre 2011
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