Poteri istituzionali e costituzione
di Ernesto Galli della Loggia
Qual è il grado di salute della seconda parte della nostra Costituzione, riguardante l’organizzazione dei poteri pubblici? Sono ancora le sue regole capaci di soddisfare esigenze minime di buon governo assicurando efficacia e trasparenza? E in quale misura tali regole sono realmente applicate?
Quanto accade da anni sotto i nostri occhi impone di porci queste domande. Un Paese serio discute dei propri problemi senza falsi pudori o ritegni di sorta. E naturalmente - anche se è noto quanto in Italia sia difficile affrontare certi argomenti senza venire immediatamente sospettati di chissà quali secondi fini - dei problemi seri come questi discute seriamente, sottraendoli all’eventuale strumentalizzazione politica.
È più che evidente che in generale tutta l’impalcatura dei poteri disegnata dalla Carta del 1948, tutto l’insieme del regime parlamentare puro lì immaginato (che, lo ricordo, non ha corrispettivo in nessun altro grande Paese dell’Europa occidentale), appare bisognoso di una decisa revisione. Non fosse altro perché, in specie a causa della presenza dei partiti, il ruolo delle Camere e dei parlamentari come centro e motore unico della formazione dei governi e della decisione politica ha subito nei fatti un radicale ridimensionamento.
Ma è in particolare sul ruolo e sui poteri del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio che mi sembra divenuto ormai improcrastinabile avviare una riflessione: non essendoci bisogno di sottolineare come è specialmente su queste due figure che si è andato sempre più focalizzando il cuore istituzionale del processo politico. Ed essendo altresì indiscutibile - al di là di ogni personale simpatia e del vario giudizio che si può dare su coloro che negli anni hanno ricoperto questi ruoli - che è a proposito di ciò che riguarda le prerogative e il modo del loro esercizio da parte delle figure di cui sopra, che si è verificato lo scostamento forse più significativo rispetto al quadro delineato dalla Costituzione. O forse, ancora di più, rispetto alle intenzioni dei suoi autori.
In linea generale, infatti, si può dire che mentre è andato crescendo di molto, e in una direzione schiettamente politica, il ruolo del presidente della Repubblica, viceversa si sono palesati in misura altrettanto forte i gravi limiti oggettivi (a cominciare per esempio dal suo potere nei confronti dei singoli ministri) che incontra l’azione del presidente del Consiglio, pur se è ad esso che nel nostro ordinamento spetta di «dirigere la politica generale del governo e ne è responsabile». Specie nel caso del presidente della Repubblica, poi, i fatti hanno dimostrato, a me sembra in modo chiarissimo, quanto il numero e la sostanziale indeterminatezza di molti dei suoi poteri possano dar luogo a una troppo larga varietà di interpretazioni circa il suo ruolo. Da un’interpretazione minimalista e per così dire notarile, a una invece assai penetrante e per così dire interventista, dotata di una fortissima capacità d’impatto e di condizionamento sull’orientamento politico del Paese. Con l’ovvia conseguenza di uno stato di tensione tra le due cariche, reso più acuto dalla diversa origine prima della loro legittimazione.
Certo, si può ben a ragione osservare che inevitabilmente la concreta esistenza delle costituzioni produce degli scostamenti di fatto dalle loro norme scritte; e che in certa misura è anche opportuno che ciò avvenga, non essendo possibile racchiudere la vita reale delle persone e delle istituzioni nella cadaverica rigidità di un testo. Ci sono però scostamenti e scostamenti dalla lettera della norma: si tratta di misurarne quantità e qualità. Se gli scostamenti sono numerosi, ripetuti e significativi - come io credo che siano nel caso nostro - allora bisogna scegliere. O fare come se nulla fosse, chiudere gli occhi e lasciare che la prassi si svincoli a suo piacere dalle regole (con tutti i pericoli che ciò comporta: a cominciare dal fatto che in questo modo «non si sa dove si può andare a finire»), o invece riflettere sui mutamenti intervenuti e decidere di cambiare le regole.
L’opinione pubblica italiana - pur di fronte a un problema di tale importanza per la nostra vita pubblica - non sembra aver scelto, viceversa, né una strada né l’altra. Bensì quella per lei tristemente abituale del dividersi secondo le linee dell’appartenenza politica e basta. Da un lato, cioè, quelli che non vogliono vedere il problema e dietro ogni accenno ad esso, dietro ogni invito a meditare sulle eventuali inadeguatezze della nostra Costituzione, immaginano chissà quali imminenti attentati ad essa; e dall’altro lato quelli che invece vedono già all’opera da tempo violazioni della Costituzione scientemente perseguite a loro danno da chi pure ne dovrebbe essere il custode. Fuor di metafora: da un lato i simpatizzanti del centro-sinistra, dall’altro quelli della destra. Sperare che finalmente si ponga fine al clima da stadio, e ci si metta a ragionare dando inizio a una discussione vera, degna di questo nome, è allo stato attuale una di quelle speranze che è obbligatorio avere. Anche se in questo Paese sono proprio queste speranze che a forza di essere deluse conducono spesso alla disperazione.
Quanto accade da anni sotto i nostri occhi impone di porci queste domande. Un Paese serio discute dei propri problemi senza falsi pudori o ritegni di sorta. E naturalmente - anche se è noto quanto in Italia sia difficile affrontare certi argomenti senza venire immediatamente sospettati di chissà quali secondi fini - dei problemi seri come questi discute seriamente, sottraendoli all’eventuale strumentalizzazione politica.
È più che evidente che in generale tutta l’impalcatura dei poteri disegnata dalla Carta del 1948, tutto l’insieme del regime parlamentare puro lì immaginato (che, lo ricordo, non ha corrispettivo in nessun altro grande Paese dell’Europa occidentale), appare bisognoso di una decisa revisione. Non fosse altro perché, in specie a causa della presenza dei partiti, il ruolo delle Camere e dei parlamentari come centro e motore unico della formazione dei governi e della decisione politica ha subito nei fatti un radicale ridimensionamento.
Ma è in particolare sul ruolo e sui poteri del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio che mi sembra divenuto ormai improcrastinabile avviare una riflessione: non essendoci bisogno di sottolineare come è specialmente su queste due figure che si è andato sempre più focalizzando il cuore istituzionale del processo politico. Ed essendo altresì indiscutibile - al di là di ogni personale simpatia e del vario giudizio che si può dare su coloro che negli anni hanno ricoperto questi ruoli - che è a proposito di ciò che riguarda le prerogative e il modo del loro esercizio da parte delle figure di cui sopra, che si è verificato lo scostamento forse più significativo rispetto al quadro delineato dalla Costituzione. O forse, ancora di più, rispetto alle intenzioni dei suoi autori.
In linea generale, infatti, si può dire che mentre è andato crescendo di molto, e in una direzione schiettamente politica, il ruolo del presidente della Repubblica, viceversa si sono palesati in misura altrettanto forte i gravi limiti oggettivi (a cominciare per esempio dal suo potere nei confronti dei singoli ministri) che incontra l’azione del presidente del Consiglio, pur se è ad esso che nel nostro ordinamento spetta di «dirigere la politica generale del governo e ne è responsabile». Specie nel caso del presidente della Repubblica, poi, i fatti hanno dimostrato, a me sembra in modo chiarissimo, quanto il numero e la sostanziale indeterminatezza di molti dei suoi poteri possano dar luogo a una troppo larga varietà di interpretazioni circa il suo ruolo. Da un’interpretazione minimalista e per così dire notarile, a una invece assai penetrante e per così dire interventista, dotata di una fortissima capacità d’impatto e di condizionamento sull’orientamento politico del Paese. Con l’ovvia conseguenza di uno stato di tensione tra le due cariche, reso più acuto dalla diversa origine prima della loro legittimazione.
Certo, si può ben a ragione osservare che inevitabilmente la concreta esistenza delle costituzioni produce degli scostamenti di fatto dalle loro norme scritte; e che in certa misura è anche opportuno che ciò avvenga, non essendo possibile racchiudere la vita reale delle persone e delle istituzioni nella cadaverica rigidità di un testo. Ci sono però scostamenti e scostamenti dalla lettera della norma: si tratta di misurarne quantità e qualità. Se gli scostamenti sono numerosi, ripetuti e significativi - come io credo che siano nel caso nostro - allora bisogna scegliere. O fare come se nulla fosse, chiudere gli occhi e lasciare che la prassi si svincoli a suo piacere dalle regole (con tutti i pericoli che ciò comporta: a cominciare dal fatto che in questo modo «non si sa dove si può andare a finire»), o invece riflettere sui mutamenti intervenuti e decidere di cambiare le regole.
L’opinione pubblica italiana - pur di fronte a un problema di tale importanza per la nostra vita pubblica - non sembra aver scelto, viceversa, né una strada né l’altra. Bensì quella per lei tristemente abituale del dividersi secondo le linee dell’appartenenza politica e basta. Da un lato, cioè, quelli che non vogliono vedere il problema e dietro ogni accenno ad esso, dietro ogni invito a meditare sulle eventuali inadeguatezze della nostra Costituzione, immaginano chissà quali imminenti attentati ad essa; e dall’altro lato quelli che invece vedono già all’opera da tempo violazioni della Costituzione scientemente perseguite a loro danno da chi pure ne dovrebbe essere il custode. Fuor di metafora: da un lato i simpatizzanti del centro-sinistra, dall’altro quelli della destra. Sperare che finalmente si ponga fine al clima da stadio, e ci si metta a ragionare dando inizio a una discussione vera, degna di questo nome, è allo stato attuale una di quelle speranze che è obbligatorio avere. Anche se in questo Paese sono proprio queste speranze che a forza di essere deluse conducono spesso alla disperazione.
«Corriere della Sera» del 30 novembre 2011
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