Imposte e regole
di Patrizia Clementi
Ancora una volta il tema dell’esenzione Ici prevista per gli immobili di tutti gli enti non commerciali, compresi quelli appartenenti alla Chiesa cattolica quando utilizzati per lo svolgimento di attività di rilevante valore sociale, torna ad essere al centro dell’attenzione provocando un dibattito che spesso pretestuosamente trascura il dato normativo. Cerchiamo perciò di riproporre gli elementi oggettivi dai quali non si può prescindere per una serena e corretta valutazione della questione oggetto di tanto interesse (e purtroppo di almeno altrettante polemiche). La norma contestata (che è solo una tra le nove differenti ipotesi di esenzione dall’Ici contemplate dall’articolo 7 del decreto legislativo 504 del 1992 e sostanzialmente confermate ai fini Imu, l’imposta destinata a sostituire l’Ici dal 2014, ma la cui entrata in vigore è stata anticipata al 2012 dal Decreto Monti) è quella che esenta gli immobili nei quali gli enti non commerciali svolgono alcune specifiche e definite attività di rilevante valore sociale, cioè quelli «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a) della legge 20 maggio 1985. n. 222 [le attività di religione o di culto]» (art. 7, c. 1, lett. i, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504). Perché un’unità immobiliare sia esente, quindi, occorre che si verifichino contestualmente due condizioni: l’unità immobiliare deve essere utilizzate da enti non commerciali e deve essere destinata totalmente all’esercizio esclusivo di una o più tra le attività individuate; inoltre, come stabilito dopo le modifiche apportate al testo originario, l’esenzione «si intende applicabile alle attività [...] che non abbiano esclusivamente natura commerciale». (cfr. c. 2-bis dell’art. 7 del D.L.. n. 203/2005, come riformulato dall’art. 39 del D.L. 223/2006). Quest’ultima condizione è da valutare sulla base della Circolare n. 2 del 2009 con la quale il Ministero delle finanze stabilisce come devono essere svolte le attività perché possa affermarsi che esse «non abbiano esclusivamente natura commerciale».
Questo l’insieme delle disposizioni che regolano l’esenzione. Il loro esame consente di collocare correttamente l’agevolazione e di illuminare le presunte "zone grigie".
Facciamo qualche esempio, scegliendoli tra quelli più "gettonati" negli ultimi interventi mediatici.
Non è vero che le unità immobiliari che gli enti non utilizzano e che affittano ad altri soggetti (abitazioni, uffici, negozi…) sono esenti. Pagano l’Ici (e pagheranno l’Imu) semplicemente perché questa previsione di esenzione non esiste.
Per lo stesso motivo non vi è dubbio che non sono esenti le unità immobiliari nelle quali gli enti svolgono alcune attività non comprese tra quelle stabilite dalla legge (i casi sempre citati sono le librerie, i negozi di oggetti sacri, i ristoranti, i bar): l’esenzione non esiste, l’imposta si paga.
Non è vero che basta inserire un’attività non commerciale in un immobile in cui si svolgono attività che non godono del regime di favore per sottrarre all’imposizione tutto l’immobile (il caso di solito citato è quello di un luogo di culto, che sarebbe esente, all’interno di un albergo, che invece non è esente); la legge infatti richiede che ciascuna unità immobiliare sia utilizzata per intero per l’attività agevolata, altrimenti tutto l’immobile perde l’esenzione, compreso il luogo di culto. Non è vero, inoltre, che non è possibile discriminare se un’attività che rientra tra quelle previste dalla norma di esenzione sia effettivamente svolta in maniera non esclusivamente commerciale e quindi usufruisca legittimamente dell’esenzione. Ad esempio, utilizzando la Circolare per quanto riguarda le attività assistenziali si può precisare che fra queste rientrano solo quelle riconducibili ai servizi sociali e che vi sono comprese sia quelle prestazioni rese gratuitamente o con compenso simbolico, sia quelle svolte in convenzione con l’ente pubblico, a condizione che le rette previste siano quelle fissate dalla convenzione; ciò, afferma la Circolare, serve a garantire che le attività siano svolte «con modalità non esclusivamente commerciali (…) assicurando che tali prestazioni non sono orientate alla realizzazione di profitti». Oppure, con riferimento alle attività culturali, la Circolare stabilisce che vi rientrano i teatri, ma limitatamente a quelli «che si avvalgono solo di compagnie non professionali».
Gli esempi potrebbero continuare e la lettura della Circolare, che consigliamo a chiunque voglia comprendere di cosa si discute, è quanto mai utile per capire che la modalità richiesta, non esclusivamente commerciale, garantisce che le unità immobiliari favorite dall’esenzione vengano effettivamente utilizzate per rendere servizi di rilevante valore sociale da parte di enti che non hanno fine di lucro e che pertanto il vantaggio ricade sui loro "utenti".
Questo l’insieme delle disposizioni che regolano l’esenzione. Il loro esame consente di collocare correttamente l’agevolazione e di illuminare le presunte "zone grigie".
Facciamo qualche esempio, scegliendoli tra quelli più "gettonati" negli ultimi interventi mediatici.
Non è vero che le unità immobiliari che gli enti non utilizzano e che affittano ad altri soggetti (abitazioni, uffici, negozi…) sono esenti. Pagano l’Ici (e pagheranno l’Imu) semplicemente perché questa previsione di esenzione non esiste.
Per lo stesso motivo non vi è dubbio che non sono esenti le unità immobiliari nelle quali gli enti svolgono alcune attività non comprese tra quelle stabilite dalla legge (i casi sempre citati sono le librerie, i negozi di oggetti sacri, i ristoranti, i bar): l’esenzione non esiste, l’imposta si paga.
Non è vero che basta inserire un’attività non commerciale in un immobile in cui si svolgono attività che non godono del regime di favore per sottrarre all’imposizione tutto l’immobile (il caso di solito citato è quello di un luogo di culto, che sarebbe esente, all’interno di un albergo, che invece non è esente); la legge infatti richiede che ciascuna unità immobiliare sia utilizzata per intero per l’attività agevolata, altrimenti tutto l’immobile perde l’esenzione, compreso il luogo di culto. Non è vero, inoltre, che non è possibile discriminare se un’attività che rientra tra quelle previste dalla norma di esenzione sia effettivamente svolta in maniera non esclusivamente commerciale e quindi usufruisca legittimamente dell’esenzione. Ad esempio, utilizzando la Circolare per quanto riguarda le attività assistenziali si può precisare che fra queste rientrano solo quelle riconducibili ai servizi sociali e che vi sono comprese sia quelle prestazioni rese gratuitamente o con compenso simbolico, sia quelle svolte in convenzione con l’ente pubblico, a condizione che le rette previste siano quelle fissate dalla convenzione; ciò, afferma la Circolare, serve a garantire che le attività siano svolte «con modalità non esclusivamente commerciali (…) assicurando che tali prestazioni non sono orientate alla realizzazione di profitti». Oppure, con riferimento alle attività culturali, la Circolare stabilisce che vi rientrano i teatri, ma limitatamente a quelli «che si avvalgono solo di compagnie non professionali».
Gli esempi potrebbero continuare e la lettura della Circolare, che consigliamo a chiunque voglia comprendere di cosa si discute, è quanto mai utile per capire che la modalità richiesta, non esclusivamente commerciale, garantisce che le unità immobiliari favorite dall’esenzione vengano effettivamente utilizzate per rendere servizi di rilevante valore sociale da parte di enti che non hanno fine di lucro e che pertanto il vantaggio ricade sui loro "utenti".
«Avvenire» dell'11 dicembre 2011
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