di Paolo Petrilli
“Una grande civiltà non è conquistata dall’esterno, finchè non ha distrutto se stessa dall’interno.”(W. Durrant).
La frase compare sullo schermo prima che il film inizi ed è subito chiaro che Gibson ne farà l’intento programmatico di tutta la pellicola, o almeno avrebbe dovuto esserlo, valutata la miopia della stragrande maggioranza dei critici che volutamente o ingenuamente (a voi il giudizio) ne hanno ristretto gli orizzonti costringendoli in quelli di un mero film di avventura, un po’ troppo violento per il genere.
Al centro della vicenda c’è l’indigeno Zampa di Giaguaro che vive con la sua tribù nella foresta intorno al XV secolo. Vivono di caccia, scherzano tra di loro, qualcuno ha dei problemi con la suocera. Ma sanno capire anche quali sono i valori veri da trasmettere ai loro figli.
Nel frattempo il popolo maya, per alimentare i propri sacrifici umani, compie delle spedizioni nella foresta per catturare questi indigeni che forse saranno bravi nella caccia ma sicuramente non sono così abili nella guerra.
Zampa di Giaguaro riesce a mettere in salvo la moglie incinta e il figlioletto in un pozzo, ma preso anche lui viene portato con un lungo cammino attraverso la foresta nel centro della civiltà maya, fin sopra una gigantesca piramide dove vengono compiuti sacrifici umani.
Una improvvisa eclisse lo salva dalla morte, ma per conquistare il diritto a tornare dai suoi deve superare un altro esame, ancora più violento, che lo porta ad uccidere il figlio di un capo e quindi a ritrovarsi dietro un gruppo di guerrieri, guidati da questo padre furente, che vogliono fargli la pelle.
Lasciamo il finale alla sorpresa dello spettatore.
Gibson applica al tema delle popolazioni centroamericane precolonizzazione la stessa operazione culturale di The Passion. Un’operazione culturale di verità. Se nella passione di Cristo rappresentò in maniera storicamente accurata la flagellazione romana (che aveva delle regole strutturate), in Apocalypto tema dell’indagine è la descrizione della civiltà maya e dei suoi rituali religiosi. In entrambi i casi il risultato sfiora picchi di violenza a tratti insostenibili, ma necessari a rappresentare la realtà dei fatti.
Dopo la visione del film l'idea che si aveva della civiltà maya non è più la stessa, non vi si riconosce il mito del buon selvaggio sposato da quasi tutti i libri di testo scolastici. Non un Eden violato dai conquistadores, ma un mondo semiprimitivo, legato ancora alla mitologia del sangue. Un mondo senza speranza, in cui una dipartita prematura viene spesso letta come un sollievo (“Dormi, non ci sarà più dolore” dice il padre guerriero chiudendo gli occhi al figlio ferito a morte).
Ma Gibson a questo punto va oltre. Non si ferma ad annotazioni di ordine antropologico, ma sposta le ambizioni del film su un piano ulteriore, proponendo una lettura soprannaturale della vicenda umana. Non accorgersene, o - peggio - non tenerne conto, significa leggere il film solo a metà.
Non si spiega in altro modo la profezia della bambina percossa.
Ecco alcune delle frasi che pronuncia: “Il momento sacro è vicino”; “Colui che vi prenderà cancellerà il cielo e la terra. Vi cancellerà e terminerà il vostro mondo”; e ancora “E’ con noi adesso”, il tutto seguito da riferimenti a Zampa di Giaguaro che sarà lo strumento propiziatorio del primo contatto con la civiltà occidentale.
Come dire che Dio, stanco della crudeltà crescente dei Maya, ritiene i tempi maturi perché il Verbo, tramite gli Spagnoli, entri e modifichi per sempre quel mondo semiprimitivo e sanguinario.
L’astuzia del regista sta nel chiarire, con la vicenda della tribù di Zampa di Giaguaro, quali furono le dinamiche che nella realtà portarono le popolazioni presenti sul territorio centroamericano e vessate dai Maya ad unirsi agli Spagnoli, per porre fine al clima di terrore in cui vivevano.
A margine va annotato un certo compiacimento manieristico nella infernale rappresentazione della città delle piramidi, popolata da una umanità corrotta e anche visivamente sgradevole; una sguardo "apocalittico", per l’appunto, che sembra a tratti prediligere le viscere per veicolare i messaggi forti di cui la pellicola è portatrice. Ma è un peccato veniale, anche perché strumentale a Gibson per confezionare un prodotto impeccabile anche cinematograficamente, coraggioso nel ridurre a una manciata di minuti i momenti parlati e nel lasciarli in maya-yucateco, una lingua morta.
E’ un grandioso affresco di un mondo un istante prima del suo collasso, che inchioda alla poltrona per più di due ore e che conferma il talento di un autore, Gibson, davvero ispirato.
La frase compare sullo schermo prima che il film inizi ed è subito chiaro che Gibson ne farà l’intento programmatico di tutta la pellicola, o almeno avrebbe dovuto esserlo, valutata la miopia della stragrande maggioranza dei critici che volutamente o ingenuamente (a voi il giudizio) ne hanno ristretto gli orizzonti costringendoli in quelli di un mero film di avventura, un po’ troppo violento per il genere.
Al centro della vicenda c’è l’indigeno Zampa di Giaguaro che vive con la sua tribù nella foresta intorno al XV secolo. Vivono di caccia, scherzano tra di loro, qualcuno ha dei problemi con la suocera. Ma sanno capire anche quali sono i valori veri da trasmettere ai loro figli.
Nel frattempo il popolo maya, per alimentare i propri sacrifici umani, compie delle spedizioni nella foresta per catturare questi indigeni che forse saranno bravi nella caccia ma sicuramente non sono così abili nella guerra.
Zampa di Giaguaro riesce a mettere in salvo la moglie incinta e il figlioletto in un pozzo, ma preso anche lui viene portato con un lungo cammino attraverso la foresta nel centro della civiltà maya, fin sopra una gigantesca piramide dove vengono compiuti sacrifici umani.
Una improvvisa eclisse lo salva dalla morte, ma per conquistare il diritto a tornare dai suoi deve superare un altro esame, ancora più violento, che lo porta ad uccidere il figlio di un capo e quindi a ritrovarsi dietro un gruppo di guerrieri, guidati da questo padre furente, che vogliono fargli la pelle.
Lasciamo il finale alla sorpresa dello spettatore.
Gibson applica al tema delle popolazioni centroamericane precolonizzazione la stessa operazione culturale di The Passion. Un’operazione culturale di verità. Se nella passione di Cristo rappresentò in maniera storicamente accurata la flagellazione romana (che aveva delle regole strutturate), in Apocalypto tema dell’indagine è la descrizione della civiltà maya e dei suoi rituali religiosi. In entrambi i casi il risultato sfiora picchi di violenza a tratti insostenibili, ma necessari a rappresentare la realtà dei fatti.
Dopo la visione del film l'idea che si aveva della civiltà maya non è più la stessa, non vi si riconosce il mito del buon selvaggio sposato da quasi tutti i libri di testo scolastici. Non un Eden violato dai conquistadores, ma un mondo semiprimitivo, legato ancora alla mitologia del sangue. Un mondo senza speranza, in cui una dipartita prematura viene spesso letta come un sollievo (“Dormi, non ci sarà più dolore” dice il padre guerriero chiudendo gli occhi al figlio ferito a morte).
Ma Gibson a questo punto va oltre. Non si ferma ad annotazioni di ordine antropologico, ma sposta le ambizioni del film su un piano ulteriore, proponendo una lettura soprannaturale della vicenda umana. Non accorgersene, o - peggio - non tenerne conto, significa leggere il film solo a metà.
Non si spiega in altro modo la profezia della bambina percossa.
Ecco alcune delle frasi che pronuncia: “Il momento sacro è vicino”; “Colui che vi prenderà cancellerà il cielo e la terra. Vi cancellerà e terminerà il vostro mondo”; e ancora “E’ con noi adesso”, il tutto seguito da riferimenti a Zampa di Giaguaro che sarà lo strumento propiziatorio del primo contatto con la civiltà occidentale.
Come dire che Dio, stanco della crudeltà crescente dei Maya, ritiene i tempi maturi perché il Verbo, tramite gli Spagnoli, entri e modifichi per sempre quel mondo semiprimitivo e sanguinario.
L’astuzia del regista sta nel chiarire, con la vicenda della tribù di Zampa di Giaguaro, quali furono le dinamiche che nella realtà portarono le popolazioni presenti sul territorio centroamericano e vessate dai Maya ad unirsi agli Spagnoli, per porre fine al clima di terrore in cui vivevano.
A margine va annotato un certo compiacimento manieristico nella infernale rappresentazione della città delle piramidi, popolata da una umanità corrotta e anche visivamente sgradevole; una sguardo "apocalittico", per l’appunto, che sembra a tratti prediligere le viscere per veicolare i messaggi forti di cui la pellicola è portatrice. Ma è un peccato veniale, anche perché strumentale a Gibson per confezionare un prodotto impeccabile anche cinematograficamente, coraggioso nel ridurre a una manciata di minuti i momenti parlati e nel lasciarli in maya-yucateco, una lingua morta.
E’ un grandioso affresco di un mondo un istante prima del suo collasso, che inchioda alla poltrona per più di due ore e che conferma il talento di un autore, Gibson, davvero ispirato.
Scaricato dal sito www.europaoggi.it il 12 ottobre 2011
Fonte: http://www.europaoggi.it/content/view/831/0/
Fonte: http://www.europaoggi.it/content/view/831/0/
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