di Franco Cardini
Tutti conoscono la Statua della Libertà, il monumentale colosso che, alto sulla roccia appunto conosciuta come Liberty Island, domina la baia di New York annunziando da lontano ai naviganti, originariamente addirittura con la luce della fiaccola-faro che tiene alta col braccio destro, ch’essi stanno finalmente per giungere nella terra d’ogni libertà. Si tratta di una sagoma in acciaio rivestita di 300 làmine sagomate di rame, alta 46 metri e poggiante su una base quadrata di 47 metri di granito sardo, per un totale di 93 metri d’altezza.
Le sue impressionanti dimensioni consentono di avvistarla già a 40 chilometri di distanza. Il modello concettuale dell’opera è ovviamente il Colosso di Rodi, vale a dire l’immensa statua-faro raffigurante il dio Apollo che nell’antichità dominava il porto dell’isola di Rodi e ch’era ritenuta una delle sette Meraviglie del mondo.
La sua concezione simbolica è ispirata a un semplice, elementare classicismo il messaggio del quale è comprensibile a tutti. Fasciata in un semplice peplo greco, cinta di una “corona radiale” che rinvia a una delle antiche corone imperiali, quella che indicava il carattere solare del potere (i raggi solari che la costituiscono sono sette, come le virtù teologali e cardinali), la severa figura muliebre ritratta rappresenta la Libertà che con la sua face luminosa illumina il mondo mentre, col braccio destro, sorregge le due tavole mosaiche della Legge le quali recano la fatidica data del 4 luglio 1776, il giorno della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Se la forma delle tavole rimanda alla tradizione mosaica, quindi biblica, la statua appare ispirata nel suo complesso alla cultura classica, quindi illuministico-massonica.
D’altro canto, lo stesso rinvio alla simbolica mosaica è patrimonio più perspicuo del mondo massonico che non di quello cristiano in quanto erede dell’ebraismo, che pur si potrebbe ritenere oggetto di un’implicita allusione. Ai piedi della Libertà giacciono la catene spezzate, simbolo del potere tirannico del re d’Inghilterra dal quale i coloni statunitensi si affrancarono con la ribellione armata. La statua ebbe naturalmente, al pari del resto della nazione statunitense - si pensi al Lafayette -, genitori francesi. Era stata difatti ideata da Édouard René de Laboulaye e costruita a Parigi su progetto di Frédéric Auguste Bartholdi - che per i sembianti della “Dea Libertà” s’ispirò forse alla statua della Libertà dell’ispirazione poetica che aveva visto nella fiorentina chiesa di Santa Croce, sul monumento funebre di Giovan Battista Nicolini opera dello scultore fiorentino Pio Fedi. Altri ritengono invece l’opera ispiratrice sia una statua marmorea di Camillo Pacetti, “la Legge Nuova”, che nel 1810 fu collocata a sinistra, sulla balconata sovrastante il portale maggiore del Duomo di Milano.
Comunque, la Statua della Libertà dovette la sua concezione e il suo prestigio soprattutto all’attento coordinamento dell’ingegner Gustave Eiffel, lo stesso della torre di ferro destinata a celebrare le glorie della scienza, della tecnica, del progresso e delle energie umane. Fu in effetti la repubblica francese a donare agli amici Stati Uniti, quel singolare monumento, smontato in 1883 casse. Per far loro passare l’oceano, furono necessari molti viaggi di una nave peraltro di stazza modesta: e la statua, che avrebbe dovuto esser pronta per il centenario della Dichiarazione d’Indipendenza, nel 1876, fu inaugurata solo dieci anni più tardi.
Ancora una quarantina d’anni dopo, nel 1924, il colosso - ormai divenuto un simbolo di speranza per tanti emigranti fu dichiarato monumento nazionale: la costruzione e la sistemazione erano state portate avanti grazie a un’entusiastica raccolta di fondi. Una poesia ad esso dedicata da Emma Lazarus, The New Colossus, recita fra l’altro: «Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata».
Il protomodello della statua, in scala ridotta (11,50 metri), fu costruito nel 1870. È tuttora a Parigi, sulla Senna, vicino al ponte Grenelle sull’Île aux Cygnes, un’isola sulla Senna, nelle vicinanze del vecchio laboratorio di Bartholdi: tutti lo ricordano in quanto teatro della scena-madre di un film di Roman Polanski, Frantic. Donato alla città il 15 novembre 1889, guarda verso l’Oceano Atlantico, verso la sua “sorella maggiore” ch’era stata eretta tre anni prima. I restauri del 1986 condussero alla completa placcatura in oro zecchino della nuova fiaccola, mentre la vecchia venne rimossa. La statua vanta numerose repliche monumentali: da Parigi a Tokyo a Las Vegas a Colmar.
La Statua della Libertà è ormai un po’ parte di tutti noi. Ha perfino, involontariamente, influenzato il nostro linguaggio. Il 28 ottobre del 1886, quando fu inaugurata a New York, ne furono distribuite tra il pubblico in souvenir delle miniature fabbricate dalla società francese Gaget Gauthier. Ma per gli americani, pronunziare correttamente il cognome Gaget era impossibile: nacque così il gadget.
L’amiamo anche noi europei, quindi, quel colosso che per tanti dei nostri vecchi è stato un simbolo di speranza e riscatto. Ciò non deve d’altronde, sotto il profilo propriamente simbologico, far abbassare la guardia a quei cattolici che giustamente, nell’odierno tempo di progressiva perdita di valori identitari, sono preoccupati di mantenere o di recuperare la loro tradizione e il loro specifico linguaggio.
La Statua della Libertà, al pari della piramidale Tour Eiffel - la piramide-obelisco del Progresso che sfida il cielo - è un oggetto di culto della “religione civica” che si esprime tanto spesso - almeno dalla Rivoluzione francese in poi - attraverso una simbolica neopagana. La Libertà, come la Ragione, la Patria e la Natura, sono “donne” che si possono raffigurare come “dee”: e che sovente assumono forme che rinviano all’archetipo della Magna Mater - ad esempio quell’Iside molti caratteri della quale, peraltro, sono stati assorbiti anche nel mondo cristiano dal culto di Maria - o a quello della saggia e guerriera Athena.
Le sue impressionanti dimensioni consentono di avvistarla già a 40 chilometri di distanza. Il modello concettuale dell’opera è ovviamente il Colosso di Rodi, vale a dire l’immensa statua-faro raffigurante il dio Apollo che nell’antichità dominava il porto dell’isola di Rodi e ch’era ritenuta una delle sette Meraviglie del mondo.
La sua concezione simbolica è ispirata a un semplice, elementare classicismo il messaggio del quale è comprensibile a tutti. Fasciata in un semplice peplo greco, cinta di una “corona radiale” che rinvia a una delle antiche corone imperiali, quella che indicava il carattere solare del potere (i raggi solari che la costituiscono sono sette, come le virtù teologali e cardinali), la severa figura muliebre ritratta rappresenta la Libertà che con la sua face luminosa illumina il mondo mentre, col braccio destro, sorregge le due tavole mosaiche della Legge le quali recano la fatidica data del 4 luglio 1776, il giorno della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Se la forma delle tavole rimanda alla tradizione mosaica, quindi biblica, la statua appare ispirata nel suo complesso alla cultura classica, quindi illuministico-massonica.
D’altro canto, lo stesso rinvio alla simbolica mosaica è patrimonio più perspicuo del mondo massonico che non di quello cristiano in quanto erede dell’ebraismo, che pur si potrebbe ritenere oggetto di un’implicita allusione. Ai piedi della Libertà giacciono la catene spezzate, simbolo del potere tirannico del re d’Inghilterra dal quale i coloni statunitensi si affrancarono con la ribellione armata. La statua ebbe naturalmente, al pari del resto della nazione statunitense - si pensi al Lafayette -, genitori francesi. Era stata difatti ideata da Édouard René de Laboulaye e costruita a Parigi su progetto di Frédéric Auguste Bartholdi - che per i sembianti della “Dea Libertà” s’ispirò forse alla statua della Libertà dell’ispirazione poetica che aveva visto nella fiorentina chiesa di Santa Croce, sul monumento funebre di Giovan Battista Nicolini opera dello scultore fiorentino Pio Fedi. Altri ritengono invece l’opera ispiratrice sia una statua marmorea di Camillo Pacetti, “la Legge Nuova”, che nel 1810 fu collocata a sinistra, sulla balconata sovrastante il portale maggiore del Duomo di Milano.
Comunque, la Statua della Libertà dovette la sua concezione e il suo prestigio soprattutto all’attento coordinamento dell’ingegner Gustave Eiffel, lo stesso della torre di ferro destinata a celebrare le glorie della scienza, della tecnica, del progresso e delle energie umane. Fu in effetti la repubblica francese a donare agli amici Stati Uniti, quel singolare monumento, smontato in 1883 casse. Per far loro passare l’oceano, furono necessari molti viaggi di una nave peraltro di stazza modesta: e la statua, che avrebbe dovuto esser pronta per il centenario della Dichiarazione d’Indipendenza, nel 1876, fu inaugurata solo dieci anni più tardi.
Ancora una quarantina d’anni dopo, nel 1924, il colosso - ormai divenuto un simbolo di speranza per tanti emigranti fu dichiarato monumento nazionale: la costruzione e la sistemazione erano state portate avanti grazie a un’entusiastica raccolta di fondi. Una poesia ad esso dedicata da Emma Lazarus, The New Colossus, recita fra l’altro: «Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata».
Il protomodello della statua, in scala ridotta (11,50 metri), fu costruito nel 1870. È tuttora a Parigi, sulla Senna, vicino al ponte Grenelle sull’Île aux Cygnes, un’isola sulla Senna, nelle vicinanze del vecchio laboratorio di Bartholdi: tutti lo ricordano in quanto teatro della scena-madre di un film di Roman Polanski, Frantic. Donato alla città il 15 novembre 1889, guarda verso l’Oceano Atlantico, verso la sua “sorella maggiore” ch’era stata eretta tre anni prima. I restauri del 1986 condussero alla completa placcatura in oro zecchino della nuova fiaccola, mentre la vecchia venne rimossa. La statua vanta numerose repliche monumentali: da Parigi a Tokyo a Las Vegas a Colmar.
La Statua della Libertà è ormai un po’ parte di tutti noi. Ha perfino, involontariamente, influenzato il nostro linguaggio. Il 28 ottobre del 1886, quando fu inaugurata a New York, ne furono distribuite tra il pubblico in souvenir delle miniature fabbricate dalla società francese Gaget Gauthier. Ma per gli americani, pronunziare correttamente il cognome Gaget era impossibile: nacque così il gadget.
L’amiamo anche noi europei, quindi, quel colosso che per tanti dei nostri vecchi è stato un simbolo di speranza e riscatto. Ciò non deve d’altronde, sotto il profilo propriamente simbologico, far abbassare la guardia a quei cattolici che giustamente, nell’odierno tempo di progressiva perdita di valori identitari, sono preoccupati di mantenere o di recuperare la loro tradizione e il loro specifico linguaggio.
La Statua della Libertà, al pari della piramidale Tour Eiffel - la piramide-obelisco del Progresso che sfida il cielo - è un oggetto di culto della “religione civica” che si esprime tanto spesso - almeno dalla Rivoluzione francese in poi - attraverso una simbolica neopagana. La Libertà, come la Ragione, la Patria e la Natura, sono “donne” che si possono raffigurare come “dee”: e che sovente assumono forme che rinviano all’archetipo della Magna Mater - ad esempio quell’Iside molti caratteri della quale, peraltro, sono stati assorbiti anche nel mondo cristiano dal culto di Maria - o a quello della saggia e guerriera Athena.
«Avvenire» del 24 ottobre 2011
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