Falsi miti - Libertà e Oppressione al Tempo dei Social Network
di Evgenij Morozov
Ogni anno c'è chi propone di assegnare il Nobel per la pace a Internet, eppure sono numerosi i casi di dittatori che volgono a loro vantaggio i nuovi media
Malgrado l'aggravarsi della crisi finanziaria, accompagnata da una crescente sfiducia verso governi nazionali, banche e persino istituzioni internazionali quali l'Unione Europea, il 2011 sarà ricordato come un anno di grande euforia per Internet. Difatti, se c'è qualcosa che può risollevare l'umore dei politici in affanno, pungolati da criticità economiche in apparenza insolubili e dalla perenne instabilità del Medio Oriente, è proprio la presenza di blog e social network, che promettono di innescare cambiamenti democratici e rovesciare tiranni. Per il secondo anno consecutivo, Internet - e questo vale per tutti coloro che lavorano principalmente con Internet (ovvero blogger o attivisti digitali) - è stato proposto per il Premio Nobel per la pace, ed è possibile che lo ottenga il prossimo anno. Sarà dunque Internet il più giovane candidato della storia a essere insignito del Nobel?
Ma non ci scaldiamo con troppo anticipo. Occorre innanzitutto chiedersi se non stiamo forse sopravvalutando il potenziale di Internet come propagatore di democrazia e sottovalutando invece le sue possibilità di impiego a scopo repressivo. Non potrebbe darsi che la nostra ingenua fiducia nei suoi poteri liberatori ci distolga dall'affrontare le vie molto più subdole e sinistre con le quali si attenta alla libertà, proprio per mezzo di Internet? È davvero una buona idea affidare il futuro della libertà e della democrazia - e la posta in gioco è altissima, dato che Internet rappresenta oggi la nuova piazza pubblica - nelle mani di Google e di Facebook, due multinazionali che mirano ad abolire l'anonimato di Internet (perché rende impossibile la vendita degli spazi pubblicitari) e a scovare un sistema per monetizzare ogni nostro clic - e, ben presto, ogni nostro pensiero?
Esistono ottime ragioni per restare scettici quando si sente sbandierare da più parti che Internet avrebbe un influsso positivo sui regimi autocratici, a dispetto delle grandi conquiste messe a segno finora dalla Primavera araba. Che cosa ci conferma in realtà questo fenomeno? Certo, la risposta più ovvia è che la Primavera araba dimostra che bastano pochi attivisti coraggiosi e tecnologicamente esperti, armati di smartphone e di strumentazione Gps, per sconfiggere il più sanguinario dei dittatori. Ma questa resta una interpretazione assai superficiale dei drammatici avvenimenti degli ultimi mesi. Perché la Primavera araba ha svelato anche fino a che punto si spinge la complicità delle aziende occidentali, che non si sono fatte scrupolo di vendere sofisticati sistemi tecnologici di sorveglianza e censura ai regimi più odiosi del pianeta; ha smascherato quanto sono abili i governi autoritari a oscurare del tutto Internet, grazie a un semplice interruttore «kill-switch»; ha messo il dito sulle clausole legali di siti come Facebook, tanto aberranti quanto inefficaci, che hanno imposto ai dissidenti egiziani e tunisini di registrarsi con i loro veri nomi, anziché pseudonimi, per poter accedere ai servizi, pena la cancellazione dal sistema.
Certo, si potrebbe controbattere che tutto ciò non importa, dato che gli attivisti hanno riportato la vittoria. Non credo però che sia una posizione ragionevole da assumere, soprattutto se ci sta a cuore il futuro della democrazia. Persino i più sognatori tra i cyber-utopisti sarebbero d'accordo nell'affermare che la cacciata dei dittatori da Egitto e Tunisia non sia avvenuta grazie a qualche particolare strumento digitale, quanto piuttosto sia stata la conseguenza di un insieme di concomitanze favorevoli, a livello politico, sociale e culturale. La tecnologia ha svolto sì un importante ruolo di mobilitazione, ma solo perché l'atmosfera era già propizia al cambiamento. Se la situazione politica sul campo fosse stata diversa, non è tanto difficile immaginare che i dittatori in Egitto e Tunisia sarebbero rimasti saldamente in sella - a dispetto di tutto l'attivismo di Facebook e Twitter - per continuare a spargere altro sangue di attivisti, come accadde in Iran nel 2009. Il fallimento della Rivoluzione verde in Iran non fu causato dallo scarso utilizzo di Twitter - tantissima gente era scesa nelle strade e nelle piazze anche senza il suo richiamo - ma dalle astute manovre del regime di Ahmadinejad.
Ma anche se si venisse a sapere che Facebook e Twitter hanno davvero svolto un ruolo importante nel coordinare le proteste, non dovrebbe essere motivo di vanto. Sono convinto che se si giudica sotto una luce favorevole l'apporto digitale alla Primavera araba per il solo merito di aver mobilitato le masse, si rischia di adottare una visione assai semplicistica sia della politica che della storia. Ben poche sono le rivoluzioni che cessano nel momento stesso della cacciata del tiranno. Solitamente si protraggono per anni, se non decenni, quando le fazioni opposte entrano in competizione nel vuoto politico lasciato dalla dittatura. Pertanto, se ci preme capire a fondo quale sia stato l'impatto effettivo, non basta osservare semplicemente quante persone questi social network sono riusciti a convogliare nelle marce di protesta, proprio perché tali raduni e cortei contraddistinguono l'inizio - e non la fine - di una rivoluzione.
La mia diffidenza riguardo queste due piattaforme come veicolo di cambiamento politico non è radicata in qualche scetticismo luddista per la loro capacità di mobilizzare le masse. Ovvio, tanto Facebook quanto Twitter possono essere strumenti eccellenti per annunciare manifestazioni, raccogliere fondi, o postare link di video per denunciare la brutalità della repressione. Ma non dimentichiamo che la nostra vita politica non si esaurisce con queste tre uniche attività.
Pertanto, l'attivismo digitale non deve essere valutato esclusivamente in base all'efficacia con cui raggiunge gli scopi che si era prefissato. Piuttosto, proprio poiché produce ripercussioni ambientali nella più vasta cultura politica che lo genera, occorre giudicarne l'utilità in base alle aspirazioni, esigenze e direzioni più ampie.Basterà un esempio banale a chiarire questo punto: se i treni sono il mezzo più efficace per spostare la gente da A a B, esistono circostanze - pensate al vostro angolino preferito in campagna! - dove il frastuono, l'affollamento e gli inconvenienti che immancabilmente accompagnano il viaggio in treno potrebbero apparire fastidiosi, mentre gli spostamenti a piedi, in macchina o persino a cavallo rappresenterebbero una migliore alternativa. Esaltare la velocità o i bassi costi del viaggio in treno in tali circostanze significa scartare a priori le esigenze del contesto locale. Il mondo della tecnopolitica non è poi così diverso. Se vogliamo valutare correttamente l'impatto degli attivisti egiziani di Facebook sul processo democratico del paese, non è ammesso limitarsi a esaltare l'apparente successo delle proteste anti Mubarak. Occorre capire se le nuove strutture decentralizzate che emergeranno prima o poi da questa politica virtuale saranno in grado di contenere o contrastare gli elementi estremisti o pro Mubarak anche dopo il rovesciamento del regime, quando la politica si sposta dalle strade alla cabina elettorale.
Non vedo nulla di male se i gruppi politici costituiti si rivolgono a Internet per diffondere il loro credo. Ciò che mi mette a disagio è la nascita di nuovissime strutture decentralizzate che sfruttano tutti i benefici di Internet per raccogliere e mobilitare sostenitori, mentre affermano che non vi è alcuna necessità di trasformarsi in organizzazioni centralizzate, strutturate e organizzate per scendere a misurarsi nell'arena politica. Il partito di Facebook, senza alcuna guida specifica, sarà altrettanto capace di governare dopo la cacciata dei dittatori? Ho i miei dubbi. Lo scetticismo a questo riguardo mi deriva innanzitutto da una concezione disincantata della vita politica e della sua implicita incompatibilità con il decentramento, ma non solo. Nutro i miei dubbi anche riguardo le previsioni di ordine temporale avanzate dai miei critici: io credo che la rivoluzione in Egitto e in Tunisia sia ancora in corso e non si sia esaurita con il rovesciamento dei dittatori. È rivelatore il fatto che Wael Ghonim - la faccia della rivoluzione Facebook in Egitto - abbia deciso di fondare una Ong per combattere la povertà tramite la tecnologia, anziché lanciare un partito politico capace di misurarsi con la vecchia guardia.
Allo stesso tempo, dobbiamo tenere gli occhi ben aperti sulle strade infinite che i dittatori stessi hanno a disposizione in questo nuovo mondo wireless superconnesso. Internet è un potente strumento di scambio di informazioni, ma il totale controllo delle informazioni - ottenute tramite sofisticati sistemi di spionaggio o con la semplice tortura - è ciò che consente ai regimi totalitari di restare al potere. La Russia e la Cina sono due ottimi esempi di governi che sono riusciti ad addomesticare Internet per servirsene a loro esclusivo vantaggio. Ci sono blogger al soldo del regime che passano la giornata a diffondere propaganda pro governativa sui blog più popolari; si verificano misteriosi cyber attacchi che vanno a complicare la vita agli editori indipendenti e ai dissidenti; vengono introdotte forme avanzate di sorveglianza e spionaggio online che ricorrono a tecniche raffinate per infiltrare la rete e identificare gli utenti di Internet e i loro contatti: in Russia e in Cina, tutto questo fa parte della vita quotidiana.
A differenza di Mubarak in Egitto e di Ben Ali in Tunisia, i governi di Mosca e di Pechino (e, con qualche riserva, si potrebbe aggiungere anche Teheran) hanno afferrato l'importanza strategica di Internet, e per impedire ai loro cittadini di abbracciare Facebook e Twitter - che sfuggono al controllo delle autorità locali - hanno fatto di tutto per promuovere i loro campioni nazionali, tipo Baidu, Yandex e Vkontakte, che si rivelano molto più facili da manipolare e da oscurare non appena si avvertono, anche sul loro suolo, le prime avvisaglie di una Primavera araba.
Quale atteggiamento assumere, dunque, nei confronti di Internet? Se la cyber utopia si è rivelata un'ideologia troppo ingenua e costosa da propugnare, dovremmo allora rassegnarci ad abbracciare la cyber distopia e considerare Internet uno strumento malefico, il peggiore di tutti gli oppressori? No, sarebbe l'atteggiamento sbagliato, ma sono fermamente convinto che porre la questione in termini di «Internet è propagatore di democrazia?» non ci condurrà da nessuna parte. Affermare che «Internet propaga la democrazia» non offre alcuna consolazione ai cittadini di stati autoritari, dove i governi, che stringono saldamente in pugno le leve del potere, ricorrono a Internet per propinare al loro popolo falsa propaganda, controllare ogni tweet e terrorizzare le Ong dissidenti con attacchi informatici. Tuttavia, affermare che «Internet propaga la dittatura» significa altresì privare di ogni speranza quegli stessi cittadini, se si considera che i regimi autoritari non durano in eterno, e che è possibile intercettare qualche raro momento di instabilità - talvolta con l'aiuto di Internet - per reclamare il cambiamento. Aderire esclusivamente a questo o a quel polo della dicotomia altro non fa che infondere in tutti noi - e specie nei politici - un falso senso di dominio intellettuale su Internet. Questa posizione imbriglia le nostre facoltà cognitive in un'ideologia che tende a semplificare arbitrariamente la visione del mondo e ci spinge a decidere tra scelte opposte non in base ai loro meriti intrinsechi, ma solo se corrispondono ai nostri preconcetti sul mondo, che potrà apparirci un nirvana cyber utopico oppure un inferno cyber distopico.
Nonostante tutto, sono convinto che sarebbe meglio affermare che Internet non propaga la democrazia, aggiungendo in una nota a piè di pagina che ciò non equivale a dire che promuove invece la dittatura. Restare agnostici sugli effetti politici della Rete - conservando la più totale trasparenza - rappresenta l'unica strada per capire Internet in termini che non siano del tutto avulsi da esseri umani, governi, ideologia, potere, contaminazioni e, soprattutto, politica. Internet non va da nessuna parte: è qui con noi e ci resterà. Adesso è il momento giusto per decidere se dovrà evolvere per favorire i dittatori - con l'aiuto delle aziende della Silicon Valley - o se non sia possibile invece arginare il suo potenziale repressivo per espandere quello liberatorio. Coltivare una certa ingenuità nei confronti della Rete, sotto forma di utopia e distopia, non ci porterà molto lontano, se siamo seriamente intenzionati a trasformarla in una preziosa alleata per tutti coloro che hanno a cuore il futuro della democrazia e della libertà. In altre parole, se è sicuramente dannoso sminuire l'importanza di Internet, promuoverla acriticamente potrebbe rivelarsi altrettanto controproducente.
(traduzione di Rita Baldassarre)
Ma non ci scaldiamo con troppo anticipo. Occorre innanzitutto chiedersi se non stiamo forse sopravvalutando il potenziale di Internet come propagatore di democrazia e sottovalutando invece le sue possibilità di impiego a scopo repressivo. Non potrebbe darsi che la nostra ingenua fiducia nei suoi poteri liberatori ci distolga dall'affrontare le vie molto più subdole e sinistre con le quali si attenta alla libertà, proprio per mezzo di Internet? È davvero una buona idea affidare il futuro della libertà e della democrazia - e la posta in gioco è altissima, dato che Internet rappresenta oggi la nuova piazza pubblica - nelle mani di Google e di Facebook, due multinazionali che mirano ad abolire l'anonimato di Internet (perché rende impossibile la vendita degli spazi pubblicitari) e a scovare un sistema per monetizzare ogni nostro clic - e, ben presto, ogni nostro pensiero?
Esistono ottime ragioni per restare scettici quando si sente sbandierare da più parti che Internet avrebbe un influsso positivo sui regimi autocratici, a dispetto delle grandi conquiste messe a segno finora dalla Primavera araba. Che cosa ci conferma in realtà questo fenomeno? Certo, la risposta più ovvia è che la Primavera araba dimostra che bastano pochi attivisti coraggiosi e tecnologicamente esperti, armati di smartphone e di strumentazione Gps, per sconfiggere il più sanguinario dei dittatori. Ma questa resta una interpretazione assai superficiale dei drammatici avvenimenti degli ultimi mesi. Perché la Primavera araba ha svelato anche fino a che punto si spinge la complicità delle aziende occidentali, che non si sono fatte scrupolo di vendere sofisticati sistemi tecnologici di sorveglianza e censura ai regimi più odiosi del pianeta; ha smascherato quanto sono abili i governi autoritari a oscurare del tutto Internet, grazie a un semplice interruttore «kill-switch»; ha messo il dito sulle clausole legali di siti come Facebook, tanto aberranti quanto inefficaci, che hanno imposto ai dissidenti egiziani e tunisini di registrarsi con i loro veri nomi, anziché pseudonimi, per poter accedere ai servizi, pena la cancellazione dal sistema.
Certo, si potrebbe controbattere che tutto ciò non importa, dato che gli attivisti hanno riportato la vittoria. Non credo però che sia una posizione ragionevole da assumere, soprattutto se ci sta a cuore il futuro della democrazia. Persino i più sognatori tra i cyber-utopisti sarebbero d'accordo nell'affermare che la cacciata dei dittatori da Egitto e Tunisia non sia avvenuta grazie a qualche particolare strumento digitale, quanto piuttosto sia stata la conseguenza di un insieme di concomitanze favorevoli, a livello politico, sociale e culturale. La tecnologia ha svolto sì un importante ruolo di mobilitazione, ma solo perché l'atmosfera era già propizia al cambiamento. Se la situazione politica sul campo fosse stata diversa, non è tanto difficile immaginare che i dittatori in Egitto e Tunisia sarebbero rimasti saldamente in sella - a dispetto di tutto l'attivismo di Facebook e Twitter - per continuare a spargere altro sangue di attivisti, come accadde in Iran nel 2009. Il fallimento della Rivoluzione verde in Iran non fu causato dallo scarso utilizzo di Twitter - tantissima gente era scesa nelle strade e nelle piazze anche senza il suo richiamo - ma dalle astute manovre del regime di Ahmadinejad.
Ma anche se si venisse a sapere che Facebook e Twitter hanno davvero svolto un ruolo importante nel coordinare le proteste, non dovrebbe essere motivo di vanto. Sono convinto che se si giudica sotto una luce favorevole l'apporto digitale alla Primavera araba per il solo merito di aver mobilitato le masse, si rischia di adottare una visione assai semplicistica sia della politica che della storia. Ben poche sono le rivoluzioni che cessano nel momento stesso della cacciata del tiranno. Solitamente si protraggono per anni, se non decenni, quando le fazioni opposte entrano in competizione nel vuoto politico lasciato dalla dittatura. Pertanto, se ci preme capire a fondo quale sia stato l'impatto effettivo, non basta osservare semplicemente quante persone questi social network sono riusciti a convogliare nelle marce di protesta, proprio perché tali raduni e cortei contraddistinguono l'inizio - e non la fine - di una rivoluzione.
La mia diffidenza riguardo queste due piattaforme come veicolo di cambiamento politico non è radicata in qualche scetticismo luddista per la loro capacità di mobilizzare le masse. Ovvio, tanto Facebook quanto Twitter possono essere strumenti eccellenti per annunciare manifestazioni, raccogliere fondi, o postare link di video per denunciare la brutalità della repressione. Ma non dimentichiamo che la nostra vita politica non si esaurisce con queste tre uniche attività.
Pertanto, l'attivismo digitale non deve essere valutato esclusivamente in base all'efficacia con cui raggiunge gli scopi che si era prefissato. Piuttosto, proprio poiché produce ripercussioni ambientali nella più vasta cultura politica che lo genera, occorre giudicarne l'utilità in base alle aspirazioni, esigenze e direzioni più ampie.Basterà un esempio banale a chiarire questo punto: se i treni sono il mezzo più efficace per spostare la gente da A a B, esistono circostanze - pensate al vostro angolino preferito in campagna! - dove il frastuono, l'affollamento e gli inconvenienti che immancabilmente accompagnano il viaggio in treno potrebbero apparire fastidiosi, mentre gli spostamenti a piedi, in macchina o persino a cavallo rappresenterebbero una migliore alternativa. Esaltare la velocità o i bassi costi del viaggio in treno in tali circostanze significa scartare a priori le esigenze del contesto locale. Il mondo della tecnopolitica non è poi così diverso. Se vogliamo valutare correttamente l'impatto degli attivisti egiziani di Facebook sul processo democratico del paese, non è ammesso limitarsi a esaltare l'apparente successo delle proteste anti Mubarak. Occorre capire se le nuove strutture decentralizzate che emergeranno prima o poi da questa politica virtuale saranno in grado di contenere o contrastare gli elementi estremisti o pro Mubarak anche dopo il rovesciamento del regime, quando la politica si sposta dalle strade alla cabina elettorale.
Non vedo nulla di male se i gruppi politici costituiti si rivolgono a Internet per diffondere il loro credo. Ciò che mi mette a disagio è la nascita di nuovissime strutture decentralizzate che sfruttano tutti i benefici di Internet per raccogliere e mobilitare sostenitori, mentre affermano che non vi è alcuna necessità di trasformarsi in organizzazioni centralizzate, strutturate e organizzate per scendere a misurarsi nell'arena politica. Il partito di Facebook, senza alcuna guida specifica, sarà altrettanto capace di governare dopo la cacciata dei dittatori? Ho i miei dubbi. Lo scetticismo a questo riguardo mi deriva innanzitutto da una concezione disincantata della vita politica e della sua implicita incompatibilità con il decentramento, ma non solo. Nutro i miei dubbi anche riguardo le previsioni di ordine temporale avanzate dai miei critici: io credo che la rivoluzione in Egitto e in Tunisia sia ancora in corso e non si sia esaurita con il rovesciamento dei dittatori. È rivelatore il fatto che Wael Ghonim - la faccia della rivoluzione Facebook in Egitto - abbia deciso di fondare una Ong per combattere la povertà tramite la tecnologia, anziché lanciare un partito politico capace di misurarsi con la vecchia guardia.
Allo stesso tempo, dobbiamo tenere gli occhi ben aperti sulle strade infinite che i dittatori stessi hanno a disposizione in questo nuovo mondo wireless superconnesso. Internet è un potente strumento di scambio di informazioni, ma il totale controllo delle informazioni - ottenute tramite sofisticati sistemi di spionaggio o con la semplice tortura - è ciò che consente ai regimi totalitari di restare al potere. La Russia e la Cina sono due ottimi esempi di governi che sono riusciti ad addomesticare Internet per servirsene a loro esclusivo vantaggio. Ci sono blogger al soldo del regime che passano la giornata a diffondere propaganda pro governativa sui blog più popolari; si verificano misteriosi cyber attacchi che vanno a complicare la vita agli editori indipendenti e ai dissidenti; vengono introdotte forme avanzate di sorveglianza e spionaggio online che ricorrono a tecniche raffinate per infiltrare la rete e identificare gli utenti di Internet e i loro contatti: in Russia e in Cina, tutto questo fa parte della vita quotidiana.
A differenza di Mubarak in Egitto e di Ben Ali in Tunisia, i governi di Mosca e di Pechino (e, con qualche riserva, si potrebbe aggiungere anche Teheran) hanno afferrato l'importanza strategica di Internet, e per impedire ai loro cittadini di abbracciare Facebook e Twitter - che sfuggono al controllo delle autorità locali - hanno fatto di tutto per promuovere i loro campioni nazionali, tipo Baidu, Yandex e Vkontakte, che si rivelano molto più facili da manipolare e da oscurare non appena si avvertono, anche sul loro suolo, le prime avvisaglie di una Primavera araba.
Quale atteggiamento assumere, dunque, nei confronti di Internet? Se la cyber utopia si è rivelata un'ideologia troppo ingenua e costosa da propugnare, dovremmo allora rassegnarci ad abbracciare la cyber distopia e considerare Internet uno strumento malefico, il peggiore di tutti gli oppressori? No, sarebbe l'atteggiamento sbagliato, ma sono fermamente convinto che porre la questione in termini di «Internet è propagatore di democrazia?» non ci condurrà da nessuna parte. Affermare che «Internet propaga la democrazia» non offre alcuna consolazione ai cittadini di stati autoritari, dove i governi, che stringono saldamente in pugno le leve del potere, ricorrono a Internet per propinare al loro popolo falsa propaganda, controllare ogni tweet e terrorizzare le Ong dissidenti con attacchi informatici. Tuttavia, affermare che «Internet propaga la dittatura» significa altresì privare di ogni speranza quegli stessi cittadini, se si considera che i regimi autoritari non durano in eterno, e che è possibile intercettare qualche raro momento di instabilità - talvolta con l'aiuto di Internet - per reclamare il cambiamento. Aderire esclusivamente a questo o a quel polo della dicotomia altro non fa che infondere in tutti noi - e specie nei politici - un falso senso di dominio intellettuale su Internet. Questa posizione imbriglia le nostre facoltà cognitive in un'ideologia che tende a semplificare arbitrariamente la visione del mondo e ci spinge a decidere tra scelte opposte non in base ai loro meriti intrinsechi, ma solo se corrispondono ai nostri preconcetti sul mondo, che potrà apparirci un nirvana cyber utopico oppure un inferno cyber distopico.
Nonostante tutto, sono convinto che sarebbe meglio affermare che Internet non propaga la democrazia, aggiungendo in una nota a piè di pagina che ciò non equivale a dire che promuove invece la dittatura. Restare agnostici sugli effetti politici della Rete - conservando la più totale trasparenza - rappresenta l'unica strada per capire Internet in termini che non siano del tutto avulsi da esseri umani, governi, ideologia, potere, contaminazioni e, soprattutto, politica. Internet non va da nessuna parte: è qui con noi e ci resterà. Adesso è il momento giusto per decidere se dovrà evolvere per favorire i dittatori - con l'aiuto delle aziende della Silicon Valley - o se non sia possibile invece arginare il suo potenziale repressivo per espandere quello liberatorio. Coltivare una certa ingenuità nei confronti della Rete, sotto forma di utopia e distopia, non ci porterà molto lontano, se siamo seriamente intenzionati a trasformarla in una preziosa alleata per tutti coloro che hanno a cuore il futuro della democrazia e della libertà. In altre parole, se è sicuramente dannoso sminuire l'importanza di Internet, promuoverla acriticamente potrebbe rivelarsi altrettanto controproducente.
(traduzione di Rita Baldassarre)
«Corriere della Sera» del 30 ottobre 2011
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