Lindau ripropone dopo vent’anni il saggio dello studioso che attaccò il relativismo e fu tra gli ispiratori della «Right Nation» di Bush. Più che mai attuale
Di Pierluigi Battista
La mancanza di cultura fa sì che gli studenti cerchino lumi ovunque, senza distinguere tra il sublime e il ciarpame Allan Bloom mostrò le trappole del politicamente corretto
Di Pierluigi Battista
La mancanza di cultura fa sì che gli studenti cerchino lumi ovunque, senza distinguere tra il sublime e il ciarpame Allan Bloom mostrò le trappole del politicamente corretto
Se avessimo letto con più attenzione (e meno ostilità acrimoniosa) questo libro di Allan Bloom del 1987 non avremmo aspettato l’11 settembre per azzannarci sullo «scontro di civiltà» o l’arrivo di papa Ratzinger per rinfocolare la disputa sul «relativismo culturale». Avremmo capito che la denuncia di Bloom dei misfatti compiuti in nome dell’«uomo democratico» dominante in Occidente non era una fisima reazionaria ma il lamento, ferreamente argomentato, di chi vedeva sgretolarsi proprio l’«attaccamento al messaggio e allo spirito» dei principi democratici e fondativi dell’America. Giacché una società comincia a inabissarsi quando non è più in grado di leggere Platone e di accapigliarsi nella ricerca spasmodica della verità e del bene. Troppo astratto, difficile, eccessivamente «filosofico»? Eppure La chiusura della mente americana fu un successo strepitoso. Talmente clamoroso da fare di Allan Bloom un uomo straordinariamente ricco. Chi ha letto Ravelstein, scritto da Saul Bellow per commemorare l’amico morto nel 1992 di Aids, ne ricorderà l’eccentricità geniale, l’eleganza ricercata e dispendiosa, il gusto per gli impianti stereofonici sofisticatissimi acquistati con i proventi del libro. Ricorderà il magnetismo esercitato da Bloom sui suoi discepoli più dotati, la sua sregolatezza così in contrasto con l’intransigenza conservatrice del suo pensiero, le telefonate in cui si divertiva diabolicamente a scambiare i gossip più feroci sul conto dell’establishment politico del mondo, affamato dei suoi consigli. Era il monumento del politicamente scorretto, il profeta dell’ondata culturale «neocon» che avrebbe sommerso la supponenza del catechismo progressista e qualche anno dopo avrebbe segnato il trionfo ideologico della «Right Nation» (e Bloom contese a Leo Strauss il titolo di «Platone di Bush»). In Italia pochi si accorsero dell’impatto che ebbe La chiusura della mente americana (ora finalmente riproposto da Lindau, molto tempo dopo la sua sparizione dalle librerie). Eppure il libro ebbe l’effetto di scardinare molte certezze, tanto da far dire a Jim Sleeper sul New York Times che quello di Bloom «è un libro di sinistra. Anzi, è il libro che la gente di sinistra ha sempre letto di nascosto». E non è un paradosso. Bloom smantella infatti la neomitologia della sinistra liberal, ma sempre in nome di una struggente nostalgia per la grande promessa contenuta nelle carte fondamentali dell’America: l’idea di una comunità democratica basata sui diritti naturali e sull’uso della ragione come via privilegiata alla costruzione del bene comune. Allievo di Leo Strauss, Bloom sa bene che la critica demolitrice della ragione, attività privilegiata solo per una ristretta aristocrazia intellettuale, non può mai diventare democratica, pena il suo pervertimento e la dissoluzione stessa di una società bisognosa di certezze granitiche. Ma quando procede al massacro intellettuale della retorica egualitaria e multiculturalista che ammorba le università americane condannate al declino e alle mediocrità, dimostra che la finta «apertura» delle menti progressiste è invece la più impermeabile «chiusura» nei confronti della ragione. In quelle menti annebbiate dalla moda culturale del momento, «la relatività della verità» non è una percezione teorica, ma «un postulato morale». A suo parare sparisce, nella retorica «relativista» in cui gli studenti progressisti sono «indottrinati», lo stesso desiderio razionale di «essere nel giusto», di stabilire che qualcosa è «migliore o peggiore» di un’altra. «Se - scrive Bloom - faccio loro le domande di routine, studiate per confutarli e farli pensare, per esempio "Se tu fossi stato un amministratore inglese in India, avresti permesso agli indigeni sotto la tua giurisdizione di bruciare la vedova al funerale di un uomo che era morto?", tacciono oppure rispondono che, in primo luogo, gli inglesi non avrebbero dovuto trovarsi lì». Sarà il massimo dell’«apertura» relativista nei confronti dell’Altro, ma il nuovo conformista non sa rispondere alle domande fondamentali. La sua è una nuova religiosità superstiziosa, apparentemente «aperta a tutte le specie di uomini e a tutte le specie di stili di vita, a tutte le ideologie». Che «non ha nemici, se non l’uomo che non è aperto a tutto». Ma in questo modo, spiega, il massimo dell’apertura, il massimo del relativismo si stravolge nel suo contrario: nel massimo della chiusura, nel massimo dell’intolleranza (e addirittura della ripulsa morale) per chi non si inchina ai suoi dogmi. La requisitoria di Bloom è sgradevole, irritante. E talvolta finisce per assomigliare a un’invettiva esacerbata contro il degradato spirito dei tempi, scomunicato nella sua interezza. Prende a bersaglio la musica rock, la rivoluzione sessuale, la fine dell’autorità paterna nelle famiglie oramai disgregate, gli sfibrati piani di studio delle facoltà umanistiche. Perfino Woody Allen che, secondo Bloom, avrebbe deformato e americanizzato la grande filosofia della disperazione tedesca in una innocua e fatua Disneyland del disagio psichico moderno. Ma è impressionante come Bloom, due anni prima del crollo del Muro di Berlino, avesse diagnosticato l’accartocciamento dell’Occidente democratico, incapace di vivere e di legittimarsi in mancanza del grande Nemico. E avesse intravisto nel declino dell’università americana il fulcro della crisi del progressismo. Convinto, come scrive Bellow nella sua prefazione, «che l’università, in una società governata dalla pubblica opinione, avrebbe dovuto essere un’isola di libertà intellettuale», Bloom si dispera per le conseguenze catastrofiche del suo asservimento all’«opinione» dominante. Lo fa sulla scorta di una lettura sofisticata della teoria politica e filosofica di Machiavelli, Hobbes, Locke e Rousseau. Ma per giungere a conclusioni politiche che mettano in discussione le certezze più care di una sinistra postmarxista che ha sublimato la sconfitta nelle litanie del relativismo culturale. Perciò la riproposta del libro di Bloom in Italia permette di ritornare a un testo che negli Stati Uniti ha rappresentato una svolta destinata a ripercuotersi persino nelle scelte strategiche della politica di Washington. Platone-Bloom non andrà alla Casa Bianca, però diventerà il testimone e il simbolo di una storica sconfitta culturale della sinistra, negli Stati Uniti ma anche in Europa (e soprattutto in Italia). Relegando il politicamente corretto nel museo archeologico delle dottrine estinte.
Il filosofo della destra americana
Torna in libreria da oggi per l’editore Lindau di Torino il famoso saggio di Allan Bloom «La chiusura della mente americana» (traduzione di Paola Pieraccini, pagine 459; € 24,50). Pubblicato da Bloom in America nel 1987 su incoraggiamento dell’amico e premio Nobel Saul Bellow, che ne scrisse la prefazione, il saggio divenne inaspettatamente un clamoroso bestseller, con circa mezzo milione di copie vendute. In Italia uscì nel 1988 da Frassinelli e non è più stato ristampato
L’autore Allan Bloom (1930-1992), filosofo americano di origine ebraica, fu allievo di Leo Strauss e Alexandre Kojève. Saul Bellow s’ispirò a lui nel tratteggiare il protagonista del suo romanzo «Ravelstein» (Mondadori, 2000)
Bloom è considerato uno dei padri del pensiero neoconservatore americano. Tra i suoi allievi anche Francis Fukuyama e l’ex presidente della Banca Mondiale, Paul Wolfowitz.
«Corriere della Sera» dell’11 aprile 2009
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