Il movimento di Marinetti fa un secolo
di Marco Meneguzzo
di Marco Meneguzzo
Nel gioco della Torre, cosa salvare dell’unica avanguardia artistica italiana? Si salva l’intuizione di un futuro dove la parola conta più dei fatti (vedi pubblicità e Tv) e aver intuito i poteri della fisica; la mitologia della macchina invece appare più che mai stucchevole
Ho sempre pensato che l’esaltazione della macchina sbandierata da Giacomo Balla fosse ben poca cosa di fronte alla rappresentazione che di questa esaltazione lo stesso Balla ne faceva con le sue opere, e che la «bellezza di un automobile» (di genere maschile, allora…) più bella della Nike di Samotracia fosse l’equivalente di una boutade da bar sport: cioè, questo contenuto concettuale – che tutti per comodità considerano come il portato più precipuo del Futurismo – non solo è ridicolmente riduttivo, ma è anche vecchio, ottocentesco come l’«Inno a Satana» (satana in questo caso è la locomotiva) del Carducci. La macchina intesa in questa maniera è figlia del positivismo e non del futuro, di un sistema interpretativo della realtà meccanicistico, lontanissimo dal futuro che fisici e chimici stavano preparando all’umanità in quei primi anni del secolo. Diversa però è la prospettiva se al mito della macchina – perseguito soprattutto da Balla, sublime artista ma scarso teorico, e da Marinetti, in fondo tardoromantico e dandy – si sostituisca il concetto di energia, che porta con sé quasi immediatamente l’idea di 'divenire' : in questo senso, sotto l’egida di Boccioni che ha sempre parlato e dipinto l’energia e quasi mai la macchina, il movimento futurista appare assai più moderno, anzi, contemporaneo. Il 'dinamismo plastico' è, in arte, il corrispondente dell’energia che si fa massa, della teoria einsteniana della relatività, e già basterebbe questa oscura intuizione poetica a rendere il Futurismo degno di essere annoverato tra i grandi del secolo passato.
Ma c’è qualcosa, del Futurismo – che il 20 febbraio 2009 compie cent’anni –, che è ancora più peculiare, che non si affianca a un contesto epocale di cui si fa portavoce artistico, così come la nuova fisica si andava facendo punta di diamante della scienza moderna, ma di cui è integralmente autore e inventore, ed è il concetto di avanguardia, con tutto ciò che questa idea porta con sé come corollario. Può darsi che abbia ragione Giulio Carlo Argan quando dice che l’avanguardia può nascere solo in società fortemente squilibrate dal punto di vista del progresso sociale, tuttavia ciò non toglie nulla alla consapevolezza di aver individuato e addirittura promosso azioni che hanno fortemente inciso sul linguaggio della modernità e della postmodernità, anche al di là del periodo aureo dell’avanguardia e della neoavanguardia, identificabile con gli anni Dieci/Venti e con gli anni Sessanta/Settanta del secolo passato. La volontà di voler incidere fortemente sulla società in fatto di costumi e di comportamento sociale forse è stata relegata nel campo dell’utopia dagli stessi avanguardisti, ma di certo il comportamento 'linguistico' è stato trasformato, e sul lungo periodo questa trasformazione ha cambiato il modo di percepire il mondo. Basti pensare a quanta importanza i Futuristi abbiano attribuito alla 'dichiarazione' più ancora che all’azione, e quanto questa attitudine si sia trasferita immediatamente nel campo della pubblicità e della propaganda: la parola che afferma – o che nega – ha più valore dell’azione corrispondente, che potrebbe anche non seguire, o differire, da quell’affermazione.
Scarsa onestà intellettuale? Ma perché non, invece, coscienza anticipatrice della progressiva smaterializzazione del mondo, che passa dalle cose alle parole, dalla produzione all’informazione? In fondo, Warhol è più vicino a Marinetti di quanto non lo sia Picasso, e forse anche di quanto non lo sia Duchamp, il quale aveva per la parola e per la cosa un rispetto quasi sciamanico. Al contrario, da quella volontà di essere 'popolari', a dispetto di tutte le provocazioni e di tutte le dichiarazioni (ecco messa in atto la prima regola del nuovo linguaggio!), tipica dei Futuristi, deriva un uso cinico del linguaggio estrinseco alla disciplinarietà dell’arte – che viene comunque rispettata dagli artisti futuristi –, viene cioè una certa volgarizzazione che mescola tutti i linguaggi in favore di ciò che oggi si definirebbe 'audience', ma d’altro canto questo stesso atteggiamento costringe anche a rimettere in gioco gli statuti linguistici del mondo e delle sue discipline comunicative, e non una volta per tutte, ma tutti i giorni.
Certe volte penso che l’avanguardia – e la prima è stata senza dubbio quella futurista – sia finita perché oggi tutto può essere avanguardia, e tutto aspira ad esserlo, conclusione cui forse anche gli stessi Futuristi non avrebbero pensato, ma che era già nell’ordine della loro azione che, se non li avrebbe visti proprio felici di questo esito, certo li vede oggi come profetici. Poi, mi consolo pensando che La città che sale di Boccioni o 'Mercurio che passa davanti al Sole' di Balla sono davvero due capolavori!
Ma c’è qualcosa, del Futurismo – che il 20 febbraio 2009 compie cent’anni –, che è ancora più peculiare, che non si affianca a un contesto epocale di cui si fa portavoce artistico, così come la nuova fisica si andava facendo punta di diamante della scienza moderna, ma di cui è integralmente autore e inventore, ed è il concetto di avanguardia, con tutto ciò che questa idea porta con sé come corollario. Può darsi che abbia ragione Giulio Carlo Argan quando dice che l’avanguardia può nascere solo in società fortemente squilibrate dal punto di vista del progresso sociale, tuttavia ciò non toglie nulla alla consapevolezza di aver individuato e addirittura promosso azioni che hanno fortemente inciso sul linguaggio della modernità e della postmodernità, anche al di là del periodo aureo dell’avanguardia e della neoavanguardia, identificabile con gli anni Dieci/Venti e con gli anni Sessanta/Settanta del secolo passato. La volontà di voler incidere fortemente sulla società in fatto di costumi e di comportamento sociale forse è stata relegata nel campo dell’utopia dagli stessi avanguardisti, ma di certo il comportamento 'linguistico' è stato trasformato, e sul lungo periodo questa trasformazione ha cambiato il modo di percepire il mondo. Basti pensare a quanta importanza i Futuristi abbiano attribuito alla 'dichiarazione' più ancora che all’azione, e quanto questa attitudine si sia trasferita immediatamente nel campo della pubblicità e della propaganda: la parola che afferma – o che nega – ha più valore dell’azione corrispondente, che potrebbe anche non seguire, o differire, da quell’affermazione.
Scarsa onestà intellettuale? Ma perché non, invece, coscienza anticipatrice della progressiva smaterializzazione del mondo, che passa dalle cose alle parole, dalla produzione all’informazione? In fondo, Warhol è più vicino a Marinetti di quanto non lo sia Picasso, e forse anche di quanto non lo sia Duchamp, il quale aveva per la parola e per la cosa un rispetto quasi sciamanico. Al contrario, da quella volontà di essere 'popolari', a dispetto di tutte le provocazioni e di tutte le dichiarazioni (ecco messa in atto la prima regola del nuovo linguaggio!), tipica dei Futuristi, deriva un uso cinico del linguaggio estrinseco alla disciplinarietà dell’arte – che viene comunque rispettata dagli artisti futuristi –, viene cioè una certa volgarizzazione che mescola tutti i linguaggi in favore di ciò che oggi si definirebbe 'audience', ma d’altro canto questo stesso atteggiamento costringe anche a rimettere in gioco gli statuti linguistici del mondo e delle sue discipline comunicative, e non una volta per tutte, ma tutti i giorni.
Certe volte penso che l’avanguardia – e la prima è stata senza dubbio quella futurista – sia finita perché oggi tutto può essere avanguardia, e tutto aspira ad esserlo, conclusione cui forse anche gli stessi Futuristi non avrebbero pensato, ma che era già nell’ordine della loro azione che, se non li avrebbe visti proprio felici di questo esito, certo li vede oggi come profetici. Poi, mi consolo pensando che La città che sale di Boccioni o 'Mercurio che passa davanti al Sole' di Balla sono davvero due capolavori!
«Avvenire» del 14 dicembre 2008
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