«I bambini fanno vendere e il marketing punta su di loro, usandoli e blandendoli»: il j’accuse del pubblicitario Paolo Landi
Di Rossana Sisti
Di Rossana Sisti
La pubblicità non è una cosa da bambini. Più chiaro e diretto di così l’avvertimento non poteva essere. A ben analizzarlo il monito è anche più duro, un allarme del tipo: salviamo i bambini dalla pubblicità esattamente come li metteremmo al sicuro da una guerra; salviamoli dalla macchina da guerra del marketing che li bersaglia, li bombarda con un gioco di spot, mode e desideri tutti uguali e li trasforma in avidi e replicanti consumatori. Poiché questa guerra da anni la combatte in prima linea – come direttore della pubblicità di Benetton e anche come docente di Comunicazione e mercato al Politecnico di Milano – Paolo Landi sa bene di cosa parla quando cerca di convincere genitori, maestri ed educatori a tener fuori dall’orizzonte dei bambini il mondo delle merci e dell’omologazione, a non cedere alla tentazione intellettualistica di voler spiegare ai più piccoli i meccanismi della pubblicità, di smontare gli spot per vedere cosa c’è dietro. Semplicemente « perché non c’è proprio niente da smontare in uno spot pubblicitario che ripropone la sua forza nella capacità di colpire emotivamente e irrazionalmente chi lo guarda, sia egli un adulto o un bambino » . Non è un attacco alla pubblicità il nuovo libro di Paolo Landi intitolato proprio La pubblicità non è una cosa da bambini – in questi giorni in libreria ( La Scuola, pagine 96, euro 8,50) – nel solco e nello stile dei pamphlet con cui ama sorprenderci, prima a proposito della tv poi di internet. Né lui si dichiara pubblicitario pentito.
Tutt’altro, ma rivendicandone la bellezza e l’utilità, con altrettanta passione, il pubblicitario si arroga il diritto di criticarla fino in fondo con l’onestà del professionista e la coscienza dell’educatore da cui non può prescindere. Accennando a una delle accuse più cordiali che gli vengono rivolte – « Lei è uno che sputa nel piatto in cui mangia » –, replica: « Solo chi conosce può criticare, solo chi sa può intervenire. E la diagnosi di uno specialista – medico ma anche idraulico – vale di più » . La pubblicità vuole i bambini in riga come soldatini da addestrare a mettersi in marcia docili e obbedienti agli imperativi del consumo? « Che in guerra ci vadano i grandi – sostiene Landi – perché i bambini vanno lasciati crescere e giocare nella pace » , cioè lontano dai valori materialistici e dalla cultura del consumo, rispettati nel loro diritto a essere bambini. Gli adulti devono capire che la pubblicità punta sui bambini, perché i bambini, come gli animali, fanno vendere: fanno breccia nelle emozioni degli adulti e spingono i coetanei all’emulazione. Aprono mercati interessanti e la pubblicità li usa doppiamente e li blandisce con un universo di prodotti e fantasia, di marche e di desideri che li abitua ad appropriarsi inconsapevolmente degli strumenti del consumo. Allora, si chiede Landi, siamo proprio sicuri di voler inculcare nei piccoli quei valori materialistici che ormai sappiamo alimentano la fragilità delle persone e condannano chi ha meno strumenti economici e culturali all’assuefazione consumista?
Trascurando per giunta la dimensione spirituale. Siamo sicuri di riempire il suo immaginario con un mondo di merci? Siamo sicuri che questo sia il meglio per loro e non piuttosto quanto conviene agli adulti? Nessuno lo ammette, tutti si dichiarano al riparo dai poteri dei superbrand ma nessuno lo è davvero, tanto meno i bambini che ne restano affascinati e plagiati, salvo patire poi la frustrazione del divario tra i desiderio di possedere tutto – stesse scarpe, stesse magliette, stessi videogiochi, bibite e biscotti... – e l’impossibilità di soddisfarlo che equivale a una condanna all’infelicità. Nessuno si illuda che cresciuti alla scuola degli spot, diventati esperti di loghi, marche e marchietti i bambini si emancipino davvero e si presentino più smaliziati e competenti sulla scena della vita. « Trascurare la dimensione spirituale per mettere di fronte il bambino alla realtà del mondo significa, secondo Landi, impedirgli di percepire la coscienza di se stesso e lavorare contro la sua libertà. Istruirlo e instradarlo verso un destino di consumatore che finirà per imprigionarlo invece di renderlo libero » . Certo, per sganciarsi dal martellamento dei consumi ci vuole un po’ di coraggio, perché educare alla diversità, a guardare la vita da un punto di vista diverso da quello corrente è un esercizio impegnativo. La maggioranza per esempio ritiene che, per crescere, i bambini abbiano bisogno della tv e di internet, dei videogiochi o della Playstation. Anche in questo il pubblicitario è maestro: a casa Landi ( tre figli di quattordici, undici e otto anni) da dieci anni non c’è nulla del genere.
Tutt’altro, ma rivendicandone la bellezza e l’utilità, con altrettanta passione, il pubblicitario si arroga il diritto di criticarla fino in fondo con l’onestà del professionista e la coscienza dell’educatore da cui non può prescindere. Accennando a una delle accuse più cordiali che gli vengono rivolte – « Lei è uno che sputa nel piatto in cui mangia » –, replica: « Solo chi conosce può criticare, solo chi sa può intervenire. E la diagnosi di uno specialista – medico ma anche idraulico – vale di più » . La pubblicità vuole i bambini in riga come soldatini da addestrare a mettersi in marcia docili e obbedienti agli imperativi del consumo? « Che in guerra ci vadano i grandi – sostiene Landi – perché i bambini vanno lasciati crescere e giocare nella pace » , cioè lontano dai valori materialistici e dalla cultura del consumo, rispettati nel loro diritto a essere bambini. Gli adulti devono capire che la pubblicità punta sui bambini, perché i bambini, come gli animali, fanno vendere: fanno breccia nelle emozioni degli adulti e spingono i coetanei all’emulazione. Aprono mercati interessanti e la pubblicità li usa doppiamente e li blandisce con un universo di prodotti e fantasia, di marche e di desideri che li abitua ad appropriarsi inconsapevolmente degli strumenti del consumo. Allora, si chiede Landi, siamo proprio sicuri di voler inculcare nei piccoli quei valori materialistici che ormai sappiamo alimentano la fragilità delle persone e condannano chi ha meno strumenti economici e culturali all’assuefazione consumista?
Trascurando per giunta la dimensione spirituale. Siamo sicuri di riempire il suo immaginario con un mondo di merci? Siamo sicuri che questo sia il meglio per loro e non piuttosto quanto conviene agli adulti? Nessuno lo ammette, tutti si dichiarano al riparo dai poteri dei superbrand ma nessuno lo è davvero, tanto meno i bambini che ne restano affascinati e plagiati, salvo patire poi la frustrazione del divario tra i desiderio di possedere tutto – stesse scarpe, stesse magliette, stessi videogiochi, bibite e biscotti... – e l’impossibilità di soddisfarlo che equivale a una condanna all’infelicità. Nessuno si illuda che cresciuti alla scuola degli spot, diventati esperti di loghi, marche e marchietti i bambini si emancipino davvero e si presentino più smaliziati e competenti sulla scena della vita. « Trascurare la dimensione spirituale per mettere di fronte il bambino alla realtà del mondo significa, secondo Landi, impedirgli di percepire la coscienza di se stesso e lavorare contro la sua libertà. Istruirlo e instradarlo verso un destino di consumatore che finirà per imprigionarlo invece di renderlo libero » . Certo, per sganciarsi dal martellamento dei consumi ci vuole un po’ di coraggio, perché educare alla diversità, a guardare la vita da un punto di vista diverso da quello corrente è un esercizio impegnativo. La maggioranza per esempio ritiene che, per crescere, i bambini abbiano bisogno della tv e di internet, dei videogiochi o della Playstation. Anche in questo il pubblicitario è maestro: a casa Landi ( tre figli di quattordici, undici e otto anni) da dieci anni non c’è nulla del genere.
«La pubblicità è come una guerra: vuole i bambini in riga come soldatini da addestrare a mettersi in marcia docili e obbedienti agli imperativi del consumo» «Nessuno si illuda che, diventati esperti di loghi, marche e marchietti, i bambini si emancipino davvero e si presentino più smaliziati e competenti»
«Avvenire» del 18 marzo 2009
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