di Philippe Daverio
Il 20 febbraio del 1909 appariva in prima pagina del quotidiano parigino «Le Figaro» un lungo articolo di quattro colonne a pagamento che conteneva il «Manifesto del Futurismo». Artefice dell’operazione, fatta senza alcun complesso di inferiorità da parte d’un italiano allora residente ufficialmente in via Senato a Milano, era Filippo Tommaso Marinetti, nato trentatré anni prima ad Alessandria d’Egitto, diplomato a Parigi e laureato in giurisprudenza a Pavia, poeta. In poco tempo al Manifesto aderirà la fetta più innovativa degli artisti che gravitano attorno a Milano, poi i romani, poi gli europei. L’idea era quella di rompere rispetto alla tradizione polverosa d’un accademia onnipotente, ma nel contempo pure con una società tradizionale carica d’una cultura museale e ginnasiale. L’intenzione era quella d’aderire a tutti gli entusiasmi della modernità meccanica. L’etica era quella ereditata dalle provocazioni anarchiche e conseguentemente, almeno a parole, dall’eccitazione per lo scoppio delle bombe e per la guerra. Nasceva così la prima avanguardia totalmente autocosciente sul vecchio continente, un mito che avrebbe battuto la strada a tante altre avanguardie, da quella russa al dadaismo internazionale. Sorgeva infine un ambiente ardito nelle arti che avrebbe con assoluta incoscienza sposato l’interventismo bellico e poi l’altra successiva rivoluzione della piccola borghesia che divenne fascismo. Alla fine del ventennio fu per un lungo periodo guardato il futurismo con estrema diffidenza. Non se ne voleva affrontare l’intima ambiguità, in fondo così naturale nel carattere italiano. Solo la sua riscoperta da parte dei grandi musei internazionali a partire dagli anni ’50 del secolo scorso ha lentamente sdoganato il movimento pur senza mai riuscire a collocarlo fuori dagli equivoci. L’anno prossimo si celebreranno i cent’anni della pubblicazione del Manifesto. Come talvolta capita quando le riletture critiche avvengono per lo scadere degli appuntamenti più che per volontà reale d’indagine, si aprirà un festival dove la parola d’ordine già apparsa sembra essere quella della massima confusione possibile. Di tutto e di più. È approdata a Roma una mostra già ordinata presso il Centre Pompidou di Parigi che ha, era ovvio, sollevato le prime polemiche. A dir il vero non è la peggiore che vedremo; se non altro le si deve riconoscere l’intenzione di collocare i risultati artistici del primo futurismo nell’ambito delle altre rotture linguistiche che avvengono contemporaneamente in Europa. Ma ne vedremo altre, chi più ne ha più ne metta. Sarà assolutamente necessario porre un distacco 'scientifico' sufficiente dagli eventi d’allora per potere ridisegnare pure la mappa politica nella quale esso nacque e operò in modo da frustrare definitivamente la tentazione di strumentalizzazione e da separare, come abbiamo fatto fra neoclassicismo e impero napoleonico o autocrazia tsarista, fra gotico internazionale e crudeltà borgognone, i valori artistici dalle condizioni politiche nei quali sorsero. Ma come si fa nella storia dell’arte seria, una volta accertati i valori, con la fredda capacità di tenerli correlati con l’ambiente e le circostanze. Servirebbe a capire meglio chi siamo realmente, noi abitanti della penisola.
«Avvenire» del 14 dicembre 2008
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