di Rosita Copioli
All’inizio, in ogni poeta c’è un suono.
Scrive Leopardi: « Io stesso mi ricordo di avere appreso coll’immaginazione d’un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo » . È la ripresentazione di un’esperienza forse ancora più remota della nascita, come la memoria della vibrazione sonora della Voce, Vâc o Logos, che origina l’universo.
Insieme alle sensazioni di bellezza paradisiaca, immortale, che rivelano il meraviglioso dove l’immaginazione non ha confini, e si partecipa senza fine con le cose, quel suono degli inizi è la prima percezione della felicità assoluta che è seme di ogni poesia, anche della più dolorosa: « io ... mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui » . La volontà inconscia di riprodurre quel suono miracoloso e inarrivabile, fonda la differenza tra la poesia e la prosa. La poesia ha necessità di perfezione, di una musica esatta, fatta di misure e calcoli infinitesimali. Tanto più sottrae e limita il dire, quanto maggiore desiderio, e senso più profondo contiene. La vastità di tutto ciò che i versi omettono, deve continuare a vibrare attraverso i vuoti. Dalle vibrazioni dei vuoti si forma l’aura che distingue la vera poesia. Ciò accade anche nelle forme più ondose dei poemi, e perfino nelle poesie scritte di slancio, giambiche, ditirambiche. È quasi il contrario rispetto alla prosa. Certo anche la prosa ha le sue musiche, con leggi sempre variate. Ma la poesia ubbidisce a quel primo suono assoluto, che esclude ogni rumore e ogni altra musica, che spinge verso una scrittura simile a una proiezione astrale, e fissa il firmamento nelle parole. Una cosa difficile, che richiede non solo la precisione dell’artigiano, ma l’invasamento, e l’aderenza a un indefinibile punto lontano, irraggiungibile.
William B. Yeats descrisse William Morris furioso contro l’attore che aveva letto i suoi versi come fossero prosa. Yeats era più esigente, quando dichiarò che voleva scrivere una poesia « fredda e appassionata come l’alba » .
Elaborò una sintassi potente e appassionata, una coincidenza di pensiero e stanza in versi apparentemente tradizionali: solo una voce impersonale come una norma inconscia, poteva evocare la presenza del soprannaturale.
L’immaginazione doveva danzare, trasportata al di là del sentimento, fin dentro il ghiaccio delle origini. Chi ascoltava si sarebbe trovato nello stato tra sonno e veglia che i greci attribuivano all’incantesimo di Ermes (thélgein). Yeats fu uno dei rarissimi poeti che furono sovrani sia nell’incanto di Ermes, sia nella possessione del piacere assoluto, proprio della poesia di Apollo ( térpein).
Nella poesia italiana, Dante e Petrarca si sono intrecciati come le radici di un albero ramificato in molte lingue, e in molte musiche. Dante trascorre in tutte le direzioni delle realtà, imitando il movimento che Dio ha impresso al cosmo. Non teme né l’infimo né l’altissimo, né il tempo né gli spazi ultraterreni, ed è capace di trarre ogni musica solo dal proprio petto, dilatato a misura dell’universo. Petrarca riflette sempre il proprio volto, pingue e malinconico, toccando un’unica corda: ma con quale precisione retorica, con quale sapienza dei sensi e dell’intelletto la modula, inventando la musica dell’anima, che ha ipnotizzato l’Occidente fino ai nostri giorni.
Ungaretti, che pensava a Petrarca e ai barocchi, a Mallarmé e a Bergson mentre leggeva Leopardi, segnalò nel naufragio dell’illusione romantica di abbracciare il tempo infinito, e nel conseguente senso del vuoto, il luogo della liberazione dai pesi, e quello delle rinascite: nell’equilibrio tra carico e spogliazione, l’enigma della leggerezza.
Leopardi ne era l’emblema: aveva trasferito il peso delle disillusioni nella lontananza, nella sostanza immateriale dell’aura. Come avrebbe osservato Italo Calvino, il suo miracolo fu « di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare » .
Lo stile della poesia è una forma della metafisica, un equilibrio quasi impossibile, che ancora giunge da Petrarca, prosciugato da ogni ridondanza: « Leopardi, come il Tasso, ha tolto all’endecasillabo ogni rimbombo, ogni lusso, ogni esteriorità, l’ha reso, direi, silenzioso. È poesia per sognarci sù, e non per declamatori. In essa la mente ascolta l’anima. Da un canto del Leopardi è difficile staccare un verso, sarebbe senza vita come un dito strappato a una mano. Il suo verso è semplicemente ciò che i vecchi trattatisti chiamavano ' l’aere del canto'. E quest’' aere' pare non muoversi, tanto ne sono dissimulati i palpiti.
Il volo è altissimo; sono fusi i battiti dell’ale » .
Scrive Leopardi: « Io stesso mi ricordo di avere appreso coll’immaginazione d’un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo » . È la ripresentazione di un’esperienza forse ancora più remota della nascita, come la memoria della vibrazione sonora della Voce, Vâc o Logos, che origina l’universo.
Insieme alle sensazioni di bellezza paradisiaca, immortale, che rivelano il meraviglioso dove l’immaginazione non ha confini, e si partecipa senza fine con le cose, quel suono degli inizi è la prima percezione della felicità assoluta che è seme di ogni poesia, anche della più dolorosa: « io ... mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui » . La volontà inconscia di riprodurre quel suono miracoloso e inarrivabile, fonda la differenza tra la poesia e la prosa. La poesia ha necessità di perfezione, di una musica esatta, fatta di misure e calcoli infinitesimali. Tanto più sottrae e limita il dire, quanto maggiore desiderio, e senso più profondo contiene. La vastità di tutto ciò che i versi omettono, deve continuare a vibrare attraverso i vuoti. Dalle vibrazioni dei vuoti si forma l’aura che distingue la vera poesia. Ciò accade anche nelle forme più ondose dei poemi, e perfino nelle poesie scritte di slancio, giambiche, ditirambiche. È quasi il contrario rispetto alla prosa. Certo anche la prosa ha le sue musiche, con leggi sempre variate. Ma la poesia ubbidisce a quel primo suono assoluto, che esclude ogni rumore e ogni altra musica, che spinge verso una scrittura simile a una proiezione astrale, e fissa il firmamento nelle parole. Una cosa difficile, che richiede non solo la precisione dell’artigiano, ma l’invasamento, e l’aderenza a un indefinibile punto lontano, irraggiungibile.
William B. Yeats descrisse William Morris furioso contro l’attore che aveva letto i suoi versi come fossero prosa. Yeats era più esigente, quando dichiarò che voleva scrivere una poesia « fredda e appassionata come l’alba » .
Elaborò una sintassi potente e appassionata, una coincidenza di pensiero e stanza in versi apparentemente tradizionali: solo una voce impersonale come una norma inconscia, poteva evocare la presenza del soprannaturale.
L’immaginazione doveva danzare, trasportata al di là del sentimento, fin dentro il ghiaccio delle origini. Chi ascoltava si sarebbe trovato nello stato tra sonno e veglia che i greci attribuivano all’incantesimo di Ermes (thélgein). Yeats fu uno dei rarissimi poeti che furono sovrani sia nell’incanto di Ermes, sia nella possessione del piacere assoluto, proprio della poesia di Apollo ( térpein).
Nella poesia italiana, Dante e Petrarca si sono intrecciati come le radici di un albero ramificato in molte lingue, e in molte musiche. Dante trascorre in tutte le direzioni delle realtà, imitando il movimento che Dio ha impresso al cosmo. Non teme né l’infimo né l’altissimo, né il tempo né gli spazi ultraterreni, ed è capace di trarre ogni musica solo dal proprio petto, dilatato a misura dell’universo. Petrarca riflette sempre il proprio volto, pingue e malinconico, toccando un’unica corda: ma con quale precisione retorica, con quale sapienza dei sensi e dell’intelletto la modula, inventando la musica dell’anima, che ha ipnotizzato l’Occidente fino ai nostri giorni.
Ungaretti, che pensava a Petrarca e ai barocchi, a Mallarmé e a Bergson mentre leggeva Leopardi, segnalò nel naufragio dell’illusione romantica di abbracciare il tempo infinito, e nel conseguente senso del vuoto, il luogo della liberazione dai pesi, e quello delle rinascite: nell’equilibrio tra carico e spogliazione, l’enigma della leggerezza.
Leopardi ne era l’emblema: aveva trasferito il peso delle disillusioni nella lontananza, nella sostanza immateriale dell’aura. Come avrebbe osservato Italo Calvino, il suo miracolo fu « di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare » .
Lo stile della poesia è una forma della metafisica, un equilibrio quasi impossibile, che ancora giunge da Petrarca, prosciugato da ogni ridondanza: « Leopardi, come il Tasso, ha tolto all’endecasillabo ogni rimbombo, ogni lusso, ogni esteriorità, l’ha reso, direi, silenzioso. È poesia per sognarci sù, e non per declamatori. In essa la mente ascolta l’anima. Da un canto del Leopardi è difficile staccare un verso, sarebbe senza vita come un dito strappato a una mano. Il suo verso è semplicemente ciò che i vecchi trattatisti chiamavano ' l’aere del canto'. E quest’' aere' pare non muoversi, tanto ne sono dissimulati i palpiti.
Il volo è altissimo; sono fusi i battiti dell’ale » .
«Avvenire» del 1 febbraio 2009
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