Domenica è apparsa su «Agorà» una pagina così intensa da farmi pensare a un anacronismo, per la radicalità con cui la questione della poesia è posta nella sua essenza, in relazione al mondo, sulle pagine di un quotidiano. Come accadeva, e non sovente, un tempo, quando ero bambino. Due delle personalità di maggior spessore della loro e mia generazione (quella che alle soglie del terzo millennio ha cambiato la poesia italiana), Giancarlo Pontiggia e Rosita Copioli affrontano la questione della poesia rispetto alla prosa, con la disarmante semplicità dei saggi e la calma incandescenza che l’argomento esige. Mentre Copioli ci offre una straordinaria radiografia della poesia nella sua relazione con il corpo della realtà, Pontiggia parte dai ripetuti, malevoli e frustrati vaticini sulla morte della poesia stessa: vaticini interessati, spiega bene, la volpe e l’uva, quella donna non mi piace perché in realtà non mi ha mai degnato di uno sguardo. Si sofferma anche sulla cronaca nera (ma lo comprendo, è quella che occupa la maggior parte dell’informazione, anche culturale), con riferimenti ad aspiranti protagonisti che terroristicamente rifiutano addirittura i libri, gli studi, in nome di un delirio graffitaro che ha la sua origine nella civiltà del personaggio e del sensazionalismo. E soprattutto, tornando al cuore della questione, chiarisce come lo spostamento verso la prosa sia un problema di singoli autori, da indagare seriamente caso per caso, e come la poesia, nella sua essenza anche storica (vale a dire la sua esistenza antropologica, il suo apparire sulla scena del mondo) costituisca una sintesi narrativa assoluta e bruciante, insostituibile. Facente parte del nostro Dna, aggiungo.
Esiste un «Homo poeticus» come è stato riconosciuto l’«Homo religiosus» di Julien Ries. E si assomigliano, questi due aspetti dell’uomo neonato sul pianeta: rito e poesia convergono in una naturale celebrazione delle forze, soffrono in una consentanea disperazione della finitudine.
Vorrei però soffermarmi su un aspetto centrale della questione, il rapporto tra poesia e narrazione.
All’inizio, in ogni poeta c’è un suono, come scrive Rosita Copioli.
Questo suono prende forma, non arbitrariamente, ma facendosi custode di svelamenti. La poesia, dice bene Pontiggia, è esperienza assoluta, insostituibile. Ma aggiungo, sin dalla sua nascita, narrante. La poesia all’inizio è cantata o declamata con musica, e racconta. I tre generi, lirico, drammatico, epico, si alternano ma spesso convivono. Parlare di fine della poesia è insensato, ma sostenere la necessità storica, in Occidente, di una sua rifondazione omeopatica (cioè sempre nel fuoco ineludibile della lirica, che della poesia è il combustibile), può essere utile.
Parlo per scelta e esperienza personale. Nel 2000 pubblicai «Antartide», un poema, di viaggio, avventura, angoscia, ritorno. Un poema che cercava l’epica e il teatro all’interno della trama lirica. Poco dopo la pubblicazione lessi una lezione americana di Borges, che al tempo mi era sfuggita, della fine degli anni Sessanta: la narrativa declina verso il minimalismo, scriveva, la poesia non può proseguire nella pura lirica. È forse il tempo che il poeta riprenda il ruolo dell’antico narratore che cantò una città bruciata, i drammi dei suoi abitanti e dei suoi nemici. Non si sta parlando di prosa, di abbassamento stilistico, ma di recupero del racconto, dell’epos.
Questa può essere una via. Non l’unica, ma una via in cui credo.
Non lo scivolamento nella prosa ma il recupero dell’epos. Che in fondo è un altro manifestarsi dell’evento, di quel racconto assoluto che brucia il tempo, nel verso.
Esiste un «Homo poeticus» come è stato riconosciuto l’«Homo religiosus» di Julien Ries. E si assomigliano, questi due aspetti dell’uomo neonato sul pianeta: rito e poesia convergono in una naturale celebrazione delle forze, soffrono in una consentanea disperazione della finitudine.
Vorrei però soffermarmi su un aspetto centrale della questione, il rapporto tra poesia e narrazione.
All’inizio, in ogni poeta c’è un suono, come scrive Rosita Copioli.
Questo suono prende forma, non arbitrariamente, ma facendosi custode di svelamenti. La poesia, dice bene Pontiggia, è esperienza assoluta, insostituibile. Ma aggiungo, sin dalla sua nascita, narrante. La poesia all’inizio è cantata o declamata con musica, e racconta. I tre generi, lirico, drammatico, epico, si alternano ma spesso convivono. Parlare di fine della poesia è insensato, ma sostenere la necessità storica, in Occidente, di una sua rifondazione omeopatica (cioè sempre nel fuoco ineludibile della lirica, che della poesia è il combustibile), può essere utile.
Parlo per scelta e esperienza personale. Nel 2000 pubblicai «Antartide», un poema, di viaggio, avventura, angoscia, ritorno. Un poema che cercava l’epica e il teatro all’interno della trama lirica. Poco dopo la pubblicazione lessi una lezione americana di Borges, che al tempo mi era sfuggita, della fine degli anni Sessanta: la narrativa declina verso il minimalismo, scriveva, la poesia non può proseguire nella pura lirica. È forse il tempo che il poeta riprenda il ruolo dell’antico narratore che cantò una città bruciata, i drammi dei suoi abitanti e dei suoi nemici. Non si sta parlando di prosa, di abbassamento stilistico, ma di recupero del racconto, dell’epos.
Questa può essere una via. Non l’unica, ma una via in cui credo.
Non lo scivolamento nella prosa ma il recupero dell’epos. Che in fondo è un altro manifestarsi dell’evento, di quel racconto assoluto che brucia il tempo, nel verso.
«Avvenire» del 3 febbraio 2009
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