di Paolo Di Stefano
Il libro condivide ormai quasi tutto con gli altri prodotti commerciali. Sarà un bene? Sarà un male? Dando un’occhiata agli ultimi dati Istat sulla lettura, si direbbe che non è né un bene né un male: gli italiani non leggevano molto e continuano a non leggere molto, nonostante gli esiti brillanti delle fiere e dei festival, diventati benemerite istituzioni, che vorrebbero coniugare il divertimento e la lettura, dove però il primo termine prevale nettamente sul secondo nel richiamare il pubblico. Fatto sta che gli altri prodotti non condividono con il libro un curioso privilegio: quello di ritrovarsi tutte le settimane sulle pagine dei giornali in una speciale classifica che elenca i più venduti. Eppure ai consumatori potrebbe essere altrettanto utile (o inutile) sapere che la lavatrice Miele ha venduto più della Bosch o viceversa, come va il sapone da barba Gillette rispetto al Nivea, e quanto hanno venduto la pasta Barilla e la Divella la settimana scorsa rispetto alla De Cecco. Se nessuno mi informa sull’andamento del mercato delle lavatrici, delle creme e della pasta, perché dovrei sapere tutto delle evoluzioni, delle impennate, degli slittamenti, degli smottamenti di ogni singolo romanzo e saggio? Insomma, la domanda è: perché ci sono le classifiche dei libri, mentre non esistono quelle di tanti altri generi merceologici che vantano numeri molto superiori: yogurt, scarpe, pannolini, succhi di frutta, auto, computer, surgelati? Non saprei rispondere, ma bisognerà che qualcuno prima o poi ce lo dica. Un titolo di qualche settimana fa sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore diceva: «Dobbiamo abolire le classifiche?». Stefano Salis rispondeva a un lettore che «le classifiche dovrebbero servire a certificare il successo commerciale dei libri». E si chiedeva se è poi vero che vendere molto debba considerarsi sempre sinonimo di mediocrità. La risposta è: certo che no. Ma a pensarci bene è un paradosso tutto da ridere: negli altri settori il criterio della qualità resiste e nessuno si sognerebbe mai di stilare una classifica indiscriminata dei capi d’abbigliamento in cui si dichiari, che so: nell’ultima settimana H&M ha venduto 1000 capi e Armani 2, Top Shop 500 e Gucci 1. Cambiando genere merceologico, scriveva tempo fa Alberto Arbasino: «Per la letteratura nessuno fa ciò che si fa per i ristoranti, una classifica per livelli, si mette in classifica il McDonald’s. E certo che batte tutti sul fatturato!». In letteratura si tende a non distinguere tra il Tavernello e il Brunello di Montalcino: e chi lo fa viene accusato di snobismo, di elitismo se non di disfattismo. È una sorta di beffa del destino, di nemesi: tempo fa qualche pericoloso sovversivo osava ancora sostenere che il libro non è una merce come le altre ma richiede metodi, canali e criteri di produzione e di valutazione diversi. Oggi non c’è più nessuno che affermi un’eresia del genere. E va bene (anzi no). Ma succede che quello che fino a qualche anno fa veniva considerato l’oggetto meno «mercantile» disponibile sul mercato, la letteratura appunto, sia l’unico a essere valutato (ogni settimana!) sulla base di criteri nudamente quantitativi e commerciali: e in quanto tale spiattellato davanti agli occhi (quanto bramosi?) del potenziale acquirente. Che è una sorta di pubblicità neanche tanto occulta: è il famoso «luogo della quantità», uno degli artifici pubblicitari più frequenti. Ne parlava Eco in un famoso saggio del ‘68, ma i «codici retorici» sono sempre quelli: «ciò che fanno i più, è imitabile », «se 9 casalinghe su 10 usano il detersivo X, sarebbe bene che lo usassi anche tu», «se il romanzo X di Y edito da Z è nella top ten, sarebbe opportuno che lo leggessi anche tu». Vuoi vedere che l’editoria risparmia sulle pubblicità, perché tanto sa che ci sono le classifiche?
«Corriere della sera» del 15 maggio 2007
Nessun commento:
Posta un commento