di Massimo Onofri
Nel bell’articolo dedicato al capitolo azionista della Resistenza, Giovanni De Luna ha ricordato sulla Stampa di ieri il processo revisionistico avviato da Pavone e De Felice, all’inizio degli anni ‘90, in vista d’una lettura non oleografica del fenomeno, non senza segnalare, però, i rischi di «impoverimento» del discorso storiografico. Non ho potuto fare a meno di pensare a come, proprio sul piano del giudizio storico, la letteratura abbia spesso anticipato, e di molto, i laboriosi risultati degli storici. Ci voleva Paul Ginsborg per diagnosticare quel «familismo» che De Roberto aveva già implacabilmente intuito nei Vicerè (1894)? Nel romanzo dove un rampollo degli Uzeda poteva dire, a nome della sua rapace e trasformista famiglia: «L’Italia è fatta, ora facciamo gli affari nostri».
La Resistenza - è vero - ha avuto presto la sua edificante traduzione nell’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò. Ma anche i suoi precoci demistificatori. Non dico del solito e grande Fenoglio, ma proprio del vituperato Cassola. E non quello autobiografico di Fausto e Anna (1952), piuttosto lo scrittore ingiuriato della Ragazza di Bube (1960). Qui, i valori della Resistenza non sono mai in discussione: ma le azioni sì. Il Bube partigiano e comunista è un’analfabeta morale: nato alla vita adulta su un rozzo abbecedario di partito. Siamo in Toscana: e non è difficile riconoscere sotto suoi i panni una delle varianti di quell’eroe manesco e protofascista, pronto alla rissa e facile all’omicidio, che Soffici aveva celebrato nel suo Lemmonio Boreo (1912).
Calvino, in un’inchiesta fatta a caldo da Mondo Operaio, osservò che Cassola non aveva dato conto del contrasto fondamentale della storia del partito comunista del dopoguerra: quello tra il partito armato estremista, disposto a ogni violenza per la Causa, e il partito «modernamente strumentato, da classe operaia egemone, capace d’agire sul piano d’una democrazia avanzata». Calvino, allora, come tanti altri intellettuali comunisti, era ancora convinto di possedere il senso della Storia: sicuro di poter distinguere tra la violenza «giusta» dei partigiani e quella iniqua dei fascisti. Cassola, dal canto suo, aveva invece avvertito il problema senza possibilità di scampo: quanto porteremo, nel mondo futuro e radioso che crediamo di costruire, di quella cieca e feroce violenza, di quella mancanza di pietà di cui, come Bube, siamo stati capaci? In questo senso, e solo in questo, La ragazza di Bube è stato il vero romanzo della «crisi della Resistenza» e il carteggio Agosti-Bianco ne è una dolorosa verifica.
La Resistenza - è vero - ha avuto presto la sua edificante traduzione nell’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò. Ma anche i suoi precoci demistificatori. Non dico del solito e grande Fenoglio, ma proprio del vituperato Cassola. E non quello autobiografico di Fausto e Anna (1952), piuttosto lo scrittore ingiuriato della Ragazza di Bube (1960). Qui, i valori della Resistenza non sono mai in discussione: ma le azioni sì. Il Bube partigiano e comunista è un’analfabeta morale: nato alla vita adulta su un rozzo abbecedario di partito. Siamo in Toscana: e non è difficile riconoscere sotto suoi i panni una delle varianti di quell’eroe manesco e protofascista, pronto alla rissa e facile all’omicidio, che Soffici aveva celebrato nel suo Lemmonio Boreo (1912).
Calvino, in un’inchiesta fatta a caldo da Mondo Operaio, osservò che Cassola non aveva dato conto del contrasto fondamentale della storia del partito comunista del dopoguerra: quello tra il partito armato estremista, disposto a ogni violenza per la Causa, e il partito «modernamente strumentato, da classe operaia egemone, capace d’agire sul piano d’una democrazia avanzata». Calvino, allora, come tanti altri intellettuali comunisti, era ancora convinto di possedere il senso della Storia: sicuro di poter distinguere tra la violenza «giusta» dei partigiani e quella iniqua dei fascisti. Cassola, dal canto suo, aveva invece avvertito il problema senza possibilità di scampo: quanto porteremo, nel mondo futuro e radioso che crediamo di costruire, di quella cieca e feroce violenza, di quella mancanza di pietà di cui, come Bube, siamo stati capaci? In questo senso, e solo in questo, La ragazza di Bube è stato il vero romanzo della «crisi della Resistenza» e il carteggio Agosti-Bianco ne è una dolorosa verifica.
«La Stampa» del 1 maggio 2007
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