Tra pochi giorni si apre a Lodi il festival dedicato alla tentazione dell’Occidente non più assillato dalla sopravvivenza. Un male oscuro che demotiva, spegne la creatività e il gusto della vita; una malattia polimorfa, vista qui da un monaco e da tre scrittori, alle prese con l’impasse della pagina bianca
di Enzo Bianchi
Per curare il «demone meridiano» impariamo dai Padri del deserto: questa «passione» nasce in una vita vissuta alla giornata, nutrita di spiritualità vagabonda in cui l’amore non è legato a una storia, ma solo all’istante. Chi non discerne il proprio desiderio, la propria volontà, il proprio operare, assumendo fallimenti e riuscite, finirà per incontrare l’acedia
Oggi l'accidia - dopo essere stata vittima di una prolungata amnesia per cui non si sapeva neppure più che tipo di malattia spirituale fosse - gode di un rinnovato e vasto interesse: ne parlano i filosofi, i sociologi e anche quanti si interessano alla spiritualità. In realtà non credo che siano molti a esercitarsi contro di essa con la lotta spirituale, non molti a conoscerla fino a farne una diagnostica personale, non molti, di conseguenza, ad avere esperienza della possibile vittoria su di essa. Inoltre, anche se molti sostengono di parlare e scrivere sull'accidia, sovente parlano e scrivono d'altro, finendo per confonderla con disagi e patologie differenti. Sì, l'accidia gode oggi di grande attenzione, eppure pochissimi ne parlano per conoscenza autentica, vissuta con la mente, il cuore, il corpo.
Cos'è, dunque, l'accidia o acedia? Akedia nel greco classico indica la mancanza, il venir meno di un interesse, un'attenzione, una sollecitudine: è quindi uno stato di scoraggiamento, di sconforto, un sentimento che rasenta la disperazione perché non si scorge più la possibilità di un senso e, dunque, di "salvezza". Nella tradizione cristiana, il primo a parlare dell'acedia è Origene che la indica come tentazione subita da Gesù nel deserto e la individua come assopimento, intontimento, perdita di vigilanza. Poco più tardi Evagrio identificherà l'acedia e la descriverà tra le otto passioni, le otto tentazioni contro le quali il monaco deve lottare: una dominante, una suggestione efficace, un «demonio» che assale tentando di invadere la persona fino a offuscare lo sguardo del cuore, fino a travolgerla per trascinarla ai bordi della patologia psichica grave, fino alla depressione. Sarà lo stesso Evagrio, riprendendo un'esegesi rabbinica al Salmo 91,6, a definire questa tentazione «demone meridiano» perché è proprio verso mezzogiorno - ora che nel deserto è particolarmente calda, afosa, ora in cui il peso del digiuno si fa sentire - che affiora nel cuore del monaco la do manda ossessiva: «Ma vale la pena? A che serve tanta fatica? Chi me lo fa fare?». Chi conosce bene questa tentazione sa che si manifesta subito come patologia, come cattivo rapporto con lo spazio, e sa anche che ad essa si può aggiungere la tristezza - l'altra tentazione, parente così stretta dell'acedia che l'occidente le ha unificate in un unico «vizio capitale» - che è un cattivo rapporto con il tempo.
L'acedia è veramente il «male oscuro»: al suo apparire ispira un turbamento tra il nostro corpo e il nostro intelletto, tra lo spazio in cui siamo e la nostra persona: si cessa di habitare secum, non si riesce più ad abitare la solitudine, il deserto, il silenzio in una quiete pacificata e si tentano fughe da se stessi accompagnate da uno smarrimento di adesione alla realtà. L'ansia interiore viene percepita con disgusto spirituale, invade l'intera persona e diventa matrice di sensazioni e dominanti che possono condurre verso il vuoto, l'abisso, la «nientità», il cinismo nei confronti della vita e degli altri; a volte invece prevale il sogno di una diversità impossibile, il pensiero di un «altrove» in una situazione irreale in cui non c'è più sforzo spirituale, né esercizio di vigilanza e neppure la presenza di Dio che pur si percepisce a tratti come schiacciante.
Così il sentimento dell'acedia si insinua nel cuore e poco alla volta lo occupa interamente a scapito di ogni altro sentimento perché non è una sensazione epidermica o superficiale ma sorge dalle profondità più nascoste e meno conosciute dell'essere umano. È una malattia radicale e cronica del cuore, uno stato d'animo che porta al disorientamento, alla de-costruzione di tutto ciò che si è fatto nella vita, alla de-vocazione di ciò che si è diventati. Evagrio dice che l'acedia ha il terribile potere di spegnere la luce di Dio negli occhi dell'uomo.
Questa tentazione, che l'essere umano ha sempre conosciuto, forse oggi si fa più frequente e intensa, soprattutto nel mondo occidentale: là dove non si è più assillati dalla fame e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, ecco aprirsi lo spazio per desideri e bisogni che vanno al di là di quelli primari e che, proprio per questo, hanno in sé una vena di insaziabilità. Quando oggi si cerca di capire l'aumento di suicidi in tutte le fasce di età, la rivendicazione sempre più insistente ed esplicita di essere aiutati a morire senza sofferenza, la rimozione della morte per l'insostenibile pesantezza della sua realtà, allora bisognerebbe avere il coraggio di fare una diagnosi nella società e nella cultura e riconoscere che siamo in una società depressa, viziata dall'acedia, da questa malattia che impedisce il dinamismo dell'amare e dell'essere amati: nemmeno l'amore appare più credibile, nemmeno questo «vale la pena». Umberto Galimberti chiama l'acedia «noia», «vuoto intellettuale», «malinconia»: espressioni che fanno riferimento non tanto a un vizio o a una nevrosi, ma piuttosto a un sentimento di «esilio sulla terra». C'è del vero in questo, ma non si pensi che questa tentazione sia estranea a chi vive nella tensione verso «un altro cielo e un'altra terra»: l'acedia a volte è seduzione di ateismo e in questa particolare tentazione i monaci sono esperti proprio in virtù del loro esercitarsi a fare a meno di molte cose.
Così il sentimento dell'acedia si insinua nel cuore e poco alla volta lo occupa interamente a scapito di ogni altro sentimento perché non è una sensazione epidermica o superficiale ma sorge dalle profondità più nascoste e meno conosciute dell'essere umano. È una malattia radicale e cronica del cuore, uno stato d'animo che porta al disorientamento, alla de-costruzione di tutto ciò che si è fatto nella vita, alla de-vocazione di ciò che si è diventati. Evagrio dice che l'acedia ha il terribile potere di spegnere la luce di Dio negli occhi dell'uomo.
Questa tentazione, che l'essere umano ha sempre conosciuto, forse oggi si fa più frequente e intensa, soprattutto nel mondo occidentale: là dove non si è più assillati dalla fame e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, ecco aprirsi lo spazio per desideri e bisogni che vanno al di là di quelli primari e che, proprio per questo, hanno in sé una vena di insaziabilità. Quando oggi si cerca di capire l'aumento di suicidi in tutte le fasce di età, la rivendicazione sempre più insistente ed esplicita di essere aiutati a morire senza sofferenza, la rimozione della morte per l'insostenibile pesantezza della sua realtà, allora bisognerebbe avere il coraggio di fare una diagnosi nella società e nella cultura e riconoscere che siamo in una società depressa, viziata dall'acedia, da questa malattia che impedisce il dinamismo dell'amare e dell'essere amati: nemmeno l'amore appare più credibile, nemmeno questo «vale la pena». Umberto Galimberti chiama l'acedia «noia», «vuoto intellettuale», «malinconia»: espressioni che fanno riferimento non tanto a un vizio o a una nevrosi, ma piuttosto a un sentimento di «esilio sulla terra». C'è del vero in questo, ma non si pensi che questa tentazione sia estranea a chi vive nella tensione verso «un altro cielo e un'altra terra»: l'acedia a volte è seduzione di ateismo e in questa particolare tentazione i monaci sono esperti proprio in virtù del loro esercitarsi a fare a meno di molte cose.
Atonia del cuore, asfissia dell'intelletto, paresi della volontà riducono l'uomo ad abitare zone infernali, a dimorare agli «inferi», cioè in abissi di nonsenso dove l'uomo ha smarrito la sua dignità. Eppure, anche in questa situazione, la voce di Dio può risuonare e chiedere addirittura, come a Silvano del Monte Athos, di abitare agli inferi senza disperare! È un caso che santi della nostra epoca come Teresa di Lisieux e Silvano dell'Athos, santi che percepiamo così attuali, abbiano conosciuto questa tentazione fino ai bordi dell'inferno? Ma i padri del deserto di ieri e di oggi, i solitari capaci di discernimento, non solo conoscono questa tentazione e la sanno diagnosticare fin dai primi sintom i, ma - da autentici «cardiognostici», conoscitori del cuore umano - sanno anche indicare i comportamenti atti a prevenirla e i rimedi adatti a curarla. Essi sanno che questa «passione» nasce innanzitutto in una vita vissuta alla giornata, una vita nutrita di spiritualità vagabonda in cui l'amore non è legato a una storia, a una vicenda ma solo all'istante e all'esperienza di un momento. Chi fa una vita obbediente solo a uno sfrenato attivismo - magari anche assunto «a fin di bene», in favore degli altri - e non sa habitare secum per attingere alla sorgente, chi si sfibra in molteplici rapporti superficiali, chi non si esercita quotidianamente a discernere il proprio desiderio, la propria volontà, il proprio operare, assumendo fallimenti e riuscite, questi finirà per incontrare presto o tardi l'acedia nel suo devastante incedere.
Per questo i rimedi che i padri del deserto indicano per controllare e vincere questo demone hanno essenzialmente tutti a che fare con la vigilanza e il discernimento sulla volontà propria: l'invocazione del Nome di Gesù, la preghiera, l'assiduità alle sante Scritture, lo stare saldi senza inseguire il vento... E per questo io credo che il rimedio per eccellenza rimanga l'eucaristia: eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, eucaristia come rapporto con le cose dono di Dio, eucaristia come strumento di comunione cristica e cosmica. Ora, l'acedia è l'esatto contrario dell'eucaristia, cioè dello spirito di ringraziamento: incapace di cogliere il rapporto con lo «spazio» e il senso delle cose, chi è preda dell'acedia vive nella a-charistia, nell'incapacità a stupirsi della bellezza, dell'amore e, quindi, nell'incapacità a rendere grazie. Come affermava già Giovanni Climaco: «nella solitudine, privi di consolazione, si è tentati dal demone dell'acedia e della acharistia». Sì, l'acedia è non credere all'amore, mentre il cristiano dice con l'apostolo Giovanni «noi crediamo all'amore»!
Per questo i rimedi che i padri del deserto indicano per controllare e vincere questo demone hanno essenzialmente tutti a che fare con la vigilanza e il discernimento sulla volontà propria: l'invocazione del Nome di Gesù, la preghiera, l'assiduità alle sante Scritture, lo stare saldi senza inseguire il vento... E per questo io credo che il rimedio per eccellenza rimanga l'eucaristia: eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, eucaristia come rapporto con le cose dono di Dio, eucaristia come strumento di comunione cristica e cosmica. Ora, l'acedia è l'esatto contrario dell'eucaristia, cioè dello spirito di ringraziamento: incapace di cogliere il rapporto con lo «spazio» e il senso delle cose, chi è preda dell'acedia vive nella a-charistia, nell'incapacità a stupirsi della bellezza, dell'amore e, quindi, nell'incapacità a rendere grazie. Come affermava già Giovanni Climaco: «nella solitudine, privi di consolazione, si è tentati dal demone dell'acedia e della acharistia». Sì, l'acedia è non credere all'amore, mentre il cristiano dice con l'apostolo Giovanni «noi crediamo all'amore»!
«Avvenire» del 6 maggio 2007
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