Cardini risponde alle critiche di Adriano Prosperi: «Difendere un collega sarebbe stato nostro dovere. In pochi l'abbiamo fatto, e comunque non ci siamo riusciti»
di Franco Cardini
Non ha apprezzato, Adriano Prosperi (su «Repubblica» del 1° maggio), il mio libretto Il "caso Ariel Toaff". Una riconsiderazione (edizioni Medusa). Me ne dispiace sinceramente. Adriano Prosperi è uno dei nostri studiosi più illustri: il suo consenso è sempre ambìto, il contrario è frustrante e fa pensare. Da parte mia, mi è dispiaciuto riscontrare in un articolo, che contiene per altro molte parti nobili e del tutto condivisibili, un tono sprezzante e risentito. Sia quindi chiaro che non avevo alcuna intenzione, in quel mio libretto, di provocare e tanto meno di offendere nessun collega, a cominciare proprio da lui. D'altronde, non riesco a capire perché Prosperi dia l'impressione di non credere nella sincerità dell'assunto dal quale sono partito. Io non sono soltanto un cattolico: sono un vecchio allievo spirituale della Compagnia di Gesù, e Prosperi sa benissimo cosa sia un "esame di coscienza". Tale esame, lo faccio ogni sera prima di addormentarmi da circa un mezzo secolo: e poche volte in vita mia ho saltato questo appuntamento. Su Toaff in effetti, ho appunto avuto la sensazione di essere partito, in una mia recensione fatta un po' troppo a caldo, con il piede sbagliato. Il libro mi era piaciuto, mi aveva affascinato, e d'altra parte mi era sembrato molto fedele al suo programma teorico: l'esaminare gli indizi, alla ricerca della possibilità di costruire delle prove. Sono state alcune recensioni evidentemente più accorte e competenti della mia, da quella di Anna Foa a quello dello stesso Prosperi, a farmi ricredere. D'altra parte, però, un'altra cosa mi aveva colpito. La coincidenza serrata, stringatissima, tra le recensioni, magari dure ma sempre professionali, degli storici, e il grande clamore politico e massmediale suscitato dal libro. Esaminando sistematicamente gli articoli dei quotidiani usciti tra febbraio e i primissimi di marzo, mi è sembrato di rendermi conto come gli studiosi, evidentemente senza volere, abbiano preso parte a un rito di linciaggio politico-intellettuale orchestrato da ambienti e per fini evidentemente extra-scientifici. Il mio libretto ha voluto essere una testimonianza, appunto, del rischio che gli studiosi corrono quando, inavvertitamente e in buona fede, mischiano la loro voce ad eterogenei cori diretti da centrali che hanno interessi tutt'altro che vicini ai loro. D'altronde, Prosperi sa molto meglio di me qual è oggi la condizione professionale dello studioso, dell'insegnante, del ricercatore. Anch'egli pratica le pagine dei quotidiani: e suppongo che lo faccia, come a un diverso livello dal suo faccio anche io, essenzialmente in due occasioni. Quando viene richiesto di un parere e quando gli sembra di avere qualcosa di importante da dire. Sul piano teorico la differenza e diciamo pure l'estraneità fra il mondo universitario e quello politico e massmediale è chiara ed evidente. In pratica, capita spesso di restar prigionieri di meccanismi che non si riescono a controllare. Non credo, onestamente, di aver bisogno di «suscitare clamore», come recita il titolo, ritengo editoriale, dell'articolo firmato da Prosperi. Faccio un altro mestiere, e avendo in passato lavorato anche in un'importante azienda che fabbrica mass-media, la Rai, posso assicurare in piena coscienza che non ho mai fatto nulla per montare sul proscenio. A volte succede anche a me, come succede a molti altri studiosi di me ben più illustri. Sono gli incerti di un mestiere che è, esso stesso, in mutamento. Il mio scritto non vuole stupire nessuno. Intende soltanto comunicare la sensazione che io ho ricevuto leggendo serialmente, e confrontandoli, i molti testi degli articoli redatti da studiosi su un caso che resta dolorosissimo. Il caso di un libro ormai sparito dalla circolazione, condannato da un Parlamento (quello israeliano), e il cui autore ha forse addirittura rischiato, a causa della sua pubblicazione, il posto di lavoro nella sua università. Mi ha preoccupato e commosso la vicenda anche umana di Ariel Toaff: una vi cenda nel quale sono entrati in gioco perfino i suoi più cari affetti familiari. Ma soprattutto mi ha preoccupato l'esemplarità di un "caso" che ha messo a nudo fino a che punto siano fragili, perfino nel nostro Occidente, le basi della libertà di ricerca scientifica. Aggiungo infine che, per quanto riguarda lo specifico della cancellazione del nome di Simonino di Trento dal numero dei santi, non mi risulta che nessun cattolico se ne sia mai lamentato. La Shoah, questa immane e terribile tragedia, ha definitivamente aperto gli occhi dei cristiani in genere e dei cattolici in particolare, anche nei confronti di quei residui di antigiudaismo che sonnecchiavano all'interno delle loro prassi liturgiche e della loro memoria storica. Antigiudaismo, certo, non è sinonimo di antisemitismo: ma quello può essere il brodo di coltura di questo. È una lezione che abbiamo imparato molto bene. Ma il libro di Toaff non aveva senza dubbio alcun benché lontano rapporto con quelle istanze o velleità di risuscitare certe tragiche ombre. Difendere un collega sarebbe stato nostro preciso dovere: se non altro distinguendo con chiarezza e rigore le nostre responsabilità rispetto a quelle di politici, di pubblicisti, di mestatori. Non l'abbiamo fatto; o meglio, solo alcuni ci hanno provato. In ogni caso non ci siamo riusciti. Il mio libretto è la dolorosa testimonianza di un fallimento personale che in una certa misura coincide con un fallimento della comunità degli studiosi. Solo questo volevo comunicare. Senza cercare alcun clamore. Insomma, quella di Pasque di sangue è stata una gran brutta pagina della nostra storia intellettuale e anche politica, dalla quale usciamo tutti sconfitti: anche i "vincitori", perché il vincere facendo sparire dalle biblioteche (e riapparire al mercato nero librario e in infinite forme di samizdat) un libro costato anni di ricerche a uno studioso serio e stimato, assistere alla sua umiliazione e rischiar di trovarsi corresponsabili della sua rovina morale, professionale e forse profondamente intima non è una vittoria della quale ci si possa vantare.
«Avvenire» del 3 maggio 2007
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