Il rapporto tra storiografia e finzione in un confronto a Milano con Pietrangelo Buttafuoco, Antonio Scurati e Alessandro Piperno
di Luciano Canfora
Borges: esistono soltanto punti di vista - Momigliano: ma la verità non si inventa
La posta in gioco di ogni discussione su «storia e narrativa» è molto alta. Si tratta o di arrendersi di fronte all’ondata che declassa la storiografia a mero racconto possibile, non molto distinguibile - tranne che per essere meno attraente - da qualunque narrazione che sia frutto di fantasia artistica, ovvero di fare quadrato intorno alla discriminante, comunque, della ricerca della verità: anche quando questa sia una verità parziale (e dunque, potenzialmente, una non-verità). Le conseguenze dell’una o dell’altra opzione sono molto chiare. Esse furono costantemente e reiteratamente messe in luce dagli storici: ad esempio da Tucidide nel suo proemio polemicamente incentrato sull’antitesi fra «verità» (che è frutto, come egli si esprime, di «indagine») e «narratività» (muthòdes); ma anche, al tempo nostro, da Arnaldo Momigliano nelle memorabili Regole del gioco nello studio della storia antica (1974); o, per fare un esempio ancor più recente, nel lavoro di scavo, empirico e teorico insieme, di Carlo Ginzburg (soprattutto nel volume del 2000 Rapporti di forza). La riduzione della storiografia a non più che «racconto possibile» comporta anche, specie là dove la battaglia è ancora aperta, una insperata mano a sostegno dei «negazionismi». C’è un sofisma alla base di certi virtuosismi «relativistici», fondati sull’ovvio richiamo alla parzialità della documentazione archivistica accessibile. E certo, chi non è consapevole del carattere provvisorio della documentazione su cui qualunque storico, anche il più fortunato, costruisce il suo racconto? Ma questo non può esimere dall’accettare acquisizioni inconfutabili né impedirà di respingere le menzogne quando esse sono inequivocabilmente tali (e non ci sarà documento che potrà «riabilitarle»). Dunque il problema è mal posto. Non si tratta di due possibili verità al paragone (quella storiografica e quella narrativa), ma, semmai, di come tener conto della insostituibile, sui generis, «verità» della narrativa. Certa grandissima narrativa del Novecento è stata, a pieno titolo, storiografia sul Novecento. Del resto il contributo, non necessariamente intenzionale, della narrativa alla «verità storica» risale di molto nel tempo, e forse appartiene ad ogni tempo: dall’epos omerico (che è anche storia) al romanzo di Grimmelshausen, a Cervantes, a Stendhal, a Manzoni, eccetera. Nel capitolo IX della prima parte del Don Chisciotte, Cervantes definisce la storia, intendendo beninteso lo scrivere storia, «madre della verità». «L’idea è meravigliosa - commenta Borges -: non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica per lui non è ciò che avvenne ma ciò che noi giudichiamo che avvenne» (Finzioni). La questione del tasso di verità presente nel tessuto narrativo di una pagina storiografica è, ab origine, il problema dello scrivere storia. Ciò vale già per Tucidide, che pure condanna gli «abbellimenti» dei poeti e dei logografi loro imitatori, e che, nondimeno, fa parlare direttamente i personaggi (come faceva Omero) e dedica un intero capitolo alla questione di come si è regolato nel riferire la parola dei protagonisti. Non lo fa per esibire la sua bravura oratoria, e comunque questo è un obiettivo secondario. È per lui una via d'uscita di fronte ad una aporia capitale e onnipresente per chi tenti di scrivere storia: quella inerente al nesso e alla sintesi fra le volontà dei singoli, di quell’insieme di singoli che sono le masse, e la volontà direttiva dei capi. È il problema, che si pone a lungo Tolstoj (Guerra e pace), di quanto valgano i piani dei capi nello svolgimento di una battaglia. E non a caso il suo «eroe» è Kutuzov, il quale si addormenta mentre i generali prussiani e austriaci disquisiscono a tavolino intorno ai piani di una battaglia che nella realtà sarà il frutto di miriadi di comportamenti individuali e del loro intreccio. Tucidide si è trovato, raccontando la guerra e la politica, di fronte alla medesima questione: quanto pesano le volontà collettive nella determinazione delle decisioni. O meglio: come avviene che tante volontà individuali si fondono in una decisione collettiva, che qualcuno «interpreta» e gli altri accettano? Nella sua diagnosi è la volontà dei capi che conta, in ultima analisi, più di ogni altra. Ed è per questo che risolve narrativamente la questione ponendo al centro la parola dei leader, riscritta o parafrasata. Ma forse non era un’arbitraria prospettiva, una sopravvalutazione dell’efficacia dell’arte del discorso. Forse la prassi dimostrava che per lo più le cose andavano effettivamente così. E forse la polarità, senza mediazioni, tra capi e popolo era effettiva, non un ritrovato letterario per dare la parola solo ad alcuni. Siamo ancora una volta sul limitare di congetture che tentano di scrutare ciò che le fonti non dicono. E quando invece lo dicono resta in noi il dubbio: in che misura interferisce in queste descrizioni, non sempre frutto di autopsia, la componente retorica? La componente retorica investe anche un altro aspetto, indissolubile dalla questione della «verità», e cioè il pathos. Un verso notevolissimo di Lucrezio dice che «a causa del tempo intercorso» noi «non abbiamo provato alcun dolore» per le carneficine del tempo della guerra annibalica (III, 832: nil sensimus aegri): non soffrimmo perché non c’eravamo. Per Lucrezio quello è un semplice tassello nell’incalzante ragionamento demolitore della credenza nell’immortalità dell'anima, ma tocca, sia pure di sfuggita, la aporia capitale della comprensione storica: essere scevro delle emozioni, e indenne dalle sofferenze è un vantaggio o non piuttosto un limite per capire «cosa veramente accadde»? La distanza temporale, di solito esaltata come matrice di equanimità, non è forse in ultima analisi un danno? Gli effetti dell’accrescersi progressivo della lontananza temporale (al di là della distruttività che il tempo comporta per la conservazione dei documenti, tema che qui lasciamo da parte), specie se coniugati con la velocità della trasformazione di civiltà, possono risolversi in una totale estraneazione, e quindi incapacità di intendere il passato. Anche di questa lotta contro il tempo è fatto lo scrivere storia. Arte a praticar la quale l’atarassia senza passioni non è la migliore, ma forse la peggiore condizione. Sicché, il pathos narrativo (la partecipazione emotiva, non il volgare patetismo) non è un cascame del lavoro storiografico ma al contrario l'indizio della perdurante vita del passato dentro di noi. Erodoto, greco d’Asia divenuto poi partigiano di Atene e storico delle guerre persiane, parlava di un passato che egli non aveva visto, ma che sentiva ancora come presente. In questo senso, e con l’abilità immaginifica propria dell'idealismo italiano, Croce poté efficacemente scrivere, al principio della sua Storia come pensiero e come azione (1938): «L'uomo è un microcosmo, non in senso naturalistico, ma in senso storico: compendio della storia universale».
«Corriere della sera» del 28 aprile
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