La buona salute è il criterio per cui vale vivere
di Assuntina Morresi
C’è chi ritiene la sentenza del Tar del Lazio – che pronunciandosi in merito alla legge 40 e alle sue linee guida avrebbe annullato il divieto della diagnosi preimpianto – una decisione «coraggiosa» dei giudici, una «difesa dei diritti fondamentali dei cittadini» e una «risposta ai loro nuovi valori». Lo ha scritto ieri il professor Umberto Veronesi, spiegando che eseguire la diagnosi preimpianto, cioè «la scelta, tra gli embrioni prodotti in vitro, di quello che non porta il seme della malattia, per impiantarlo» vuole dire «la certezza di un figlio sano».
Tralasciamo pure il fatto che questa tecnica, quando non altera pesantemente lo sviluppo embrionale, non dà la certezza della salute del nascituro, ma si limita a identificare alcune patologie legate al suo codice genetico.
Seguendo le considerazioni del professor Veronesi, si deduce quindi che avere un figlio sano non solo è un legittimo desiderio di ogni genitore, non solo è diventato un diritto fondamentale (come è stato ripetuto durante tutta la campagna referendaria del 2005), ma si è trasformato pure in 'nuovo valore'. A rigor di logica, quindi, avere un figlio non sano, malato o disabile, sarebbe un 'vecchio valore', cioè qualcosa di superato, o addirittura un disvalore, qualcosa che è visto dalla società come moralmente inaccettabile. Ammettiamo onestamente che è di questo che si sta parlando, quando si chiede di poter scegliere un embrione: la scelta presuppone sempre un 'migliore' e un 'peggiore', qualcosa che vale di più, a discapito di qualcosa di minor valore; e in questo caso, cioè nella scelta fra embrioni prodotti in laboratorio, il criterio per stabilire i migliori e i peggiori è la salute. Potrà non piacere, ma in questo modo si stabilisce ad esempio che un futuro malato di talassemia sarà in quanto tale peggiore di uno che non abbia questa malattia, o anche che una persona con una certa probabilità di sviluppare un cancro sarà peggiore di chi ha una probabilità inferiore, o di chi non ne avrà affatto (come sta già accadendo in Gran Bretagna, dove si usa la diagnosi preimpianto anche per questi casi). La qualità della vita diventa, nella filosofia propagandata dal professor Veronesi, misura del valore della vita stessa: è questa la sostanza etica dei 'nuovi valori'. Eppure, se si afferma che questa è eugenetica, c’è chi si ritrae, indignato.
L’eugenetica, per molti, è quella che produce figli biondi con gli occhi azzurri, o quella imposta dallo Stato. Ma scegliere l’embrione sano e scartare quello difettato, dire 'tu sì, tu no', che altro è, allora? Chiariamo una volta per tutte questo punto: ogni forma di selezione genetica sulle persone, è eugenetica.
Nella normativa italiana del dopoguerra l’eugenetica non è mai stata introdotta: non la prevede la legge 194 che regolamenta l’aborto, e neppure la legge 40, che nell’articolo 13 vieta espressamente la selezione genetica degli embrioni, e che infatti non permette a coppie portatrici di malattie ereditarie di accedere alle nuove tecniche di fecondazione in vitro. La tanto contestata legge sulla procreazione medicalmente assistita è stata formulata per dare un’opportunità a coppie infertili di diventare genitori, non certo per consentire la scelta di chi diventare genitori. Mai come in questi anni si parla di pari opportunità, di non discriminazione, di accettazione delle diversità, eppure al tempo stesso mai come nei nostri tempi la malattia e la disabilità sono così poco tollerate, tanto da ritenere lecita la possibilità di scelta del figlio: teniamo il sano, buttiamo il malato. Sono questi i nuovi valori?
Tralasciamo pure il fatto che questa tecnica, quando non altera pesantemente lo sviluppo embrionale, non dà la certezza della salute del nascituro, ma si limita a identificare alcune patologie legate al suo codice genetico.
Seguendo le considerazioni del professor Veronesi, si deduce quindi che avere un figlio sano non solo è un legittimo desiderio di ogni genitore, non solo è diventato un diritto fondamentale (come è stato ripetuto durante tutta la campagna referendaria del 2005), ma si è trasformato pure in 'nuovo valore'. A rigor di logica, quindi, avere un figlio non sano, malato o disabile, sarebbe un 'vecchio valore', cioè qualcosa di superato, o addirittura un disvalore, qualcosa che è visto dalla società come moralmente inaccettabile. Ammettiamo onestamente che è di questo che si sta parlando, quando si chiede di poter scegliere un embrione: la scelta presuppone sempre un 'migliore' e un 'peggiore', qualcosa che vale di più, a discapito di qualcosa di minor valore; e in questo caso, cioè nella scelta fra embrioni prodotti in laboratorio, il criterio per stabilire i migliori e i peggiori è la salute. Potrà non piacere, ma in questo modo si stabilisce ad esempio che un futuro malato di talassemia sarà in quanto tale peggiore di uno che non abbia questa malattia, o anche che una persona con una certa probabilità di sviluppare un cancro sarà peggiore di chi ha una probabilità inferiore, o di chi non ne avrà affatto (come sta già accadendo in Gran Bretagna, dove si usa la diagnosi preimpianto anche per questi casi). La qualità della vita diventa, nella filosofia propagandata dal professor Veronesi, misura del valore della vita stessa: è questa la sostanza etica dei 'nuovi valori'. Eppure, se si afferma che questa è eugenetica, c’è chi si ritrae, indignato.
L’eugenetica, per molti, è quella che produce figli biondi con gli occhi azzurri, o quella imposta dallo Stato. Ma scegliere l’embrione sano e scartare quello difettato, dire 'tu sì, tu no', che altro è, allora? Chiariamo una volta per tutte questo punto: ogni forma di selezione genetica sulle persone, è eugenetica.
Nella normativa italiana del dopoguerra l’eugenetica non è mai stata introdotta: non la prevede la legge 194 che regolamenta l’aborto, e neppure la legge 40, che nell’articolo 13 vieta espressamente la selezione genetica degli embrioni, e che infatti non permette a coppie portatrici di malattie ereditarie di accedere alle nuove tecniche di fecondazione in vitro. La tanto contestata legge sulla procreazione medicalmente assistita è stata formulata per dare un’opportunità a coppie infertili di diventare genitori, non certo per consentire la scelta di chi diventare genitori. Mai come in questi anni si parla di pari opportunità, di non discriminazione, di accettazione delle diversità, eppure al tempo stesso mai come nei nostri tempi la malattia e la disabilità sono così poco tollerate, tanto da ritenere lecita la possibilità di scelta del figlio: teniamo il sano, buttiamo il malato. Sono questi i nuovi valori?
«Avvenire» del 25 gennaio 2008
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