di Giuseppe Galasso
«Il tema della vivibilità non è nuovo», dice bene Stefano Semplici (sulla rivista «Paradoxa» n.3), concludendone che «il risultato finale della vivibilità si ottiene rinunciando alla scorciatoia delle contrapposizioni ad effetto, che, pure provocandoci, ci danno da pensare: i poeti e gli ingegneri, la natura e la città, la decrescita e il profitto, le chiese e i laboratori. Si tratta, in altri termini, di riconoscere che davvero nella vivibilità è in questione non l'amministrazione degli interessi, ma il senso della politica». E subito gli si direbbe di sì, se non venisse ugualmente subito in mente che il senso della politica non è in gioco soltanto qui, bensì in ogni altro settore o momento della vita umana o sociale. Occorre dimostrarlo? Per Aristotele l'uomo è un animale politico, come si sa. Egli sottolineava con ciò la costitutiva, insuperabile, ineliminabile dimensione sociale e comunitaria del modo di essere e di vivere dell' uomo nella storia, cioè nell'unico modo in cui lo si è conosciuto e lo si conosce. E la definizione ebbe tanta fortuna, anche se non sempre ben compresa, proprio perché coglieva questo dato di fondo. Sempre in gioco, dunque, il senso della politica (lo scrivo sottolineato anch'io, ma non capisco bene perché: la politica nel senso più alto? quale?). E la dannazione della politica è, però, sempre di aver a che fare innanzitutto con il gioco degli interessi (che non sono solo quelli economici e finanziari, ma quelli di tutto «questo guazzabuglio del cuore umano», come lo definiva Manzoni). Togliete alla politica questa bruta e cruda materia, traetela fuori dal rude confronto con essa, e non avrete più nessuna politica, né alta, né bassa. Insomma, il senso della politica non è mai a buon mercato (e mercato sia in senso letterale che figurato).
«Corriere della sera» del 12 gennaio 2008
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