Un saggio di Arturo Mazzarella sul rapporto tra letteratura e digitale
di Paolo Di Stefano
Sono i padri dell’immateriale. «Palomar» anticipa la rete
Tutto comincia con Henry James e con quelle che lui definiva le molteplici finestre aperte nella «casa della narrativa». Se proprio dobbiamo individuare un nonno nobile della virtualità, bisogna risalire all’autore del Giro di vite, lucido analista dell’arte del romanzo. Secondo Arturo Mazzarella, che al rapporto tra virtuale e letteratura ha dedicato un interessante saggio (La grande rete della scrittura, Bollati Boringhieri, pagine 128, 15, in uscita domani), è ora che la critica metta da parte il suo arcinoto «orgoglio di casta». Quello che ha unito in un’unica battaglia a difesa del primato del sapere umanistico e della Letteratura intellettuali di estrazione e impostazione diversissima quali, per esempio, Fortini e Citati. Insomma la presunta estraneità della letteratura alla rete mediatica sarebbe stata (e sarebbe tuttora), per la «casta» letteraria, la garanzia dalla sua (e forse anche della propria) superiorità. Invece. Alla Letteratura si oppone una scrittura letteraria più «laica», che si propone, senza puzza sotto il naso, quale serbatoio di ibridazione e di commistione con altri linguaggi. E se in origine c’era James, Mazzarella non esita a individuare i padri di un filone più recente (diciamo dagli anni ‘90 a oggi) la cui esperienza si intreccia e spesso si sovrappone con quella della rivoluzione digitale. Senza alcun antagonismo. Il principio da cui si parte, e che viene ribadito con insistenza nel libro (sulla base dei più acuminati studi teorici in materia), è che il virtuale è un dispositivo concettuale prima che tecnologico. E come tale appartiene alla letteratura ben prima di approdare in ambito digitale: vi appartiene, come James aveva intuito un secolo fa, in una particolare accezione che poi diventerà indispensabile supporto per tutti i nuovi media. La virtualità è essenzialmente moltiplicazione dei punti di vista e il punto di vista è alla base delle manipolazioni e dislocazioni realizzate oggi dai film e dai video d’arte e dai «più accattivanti congegni illusionistici predisposti dai videogame o dall’animazione digitale». E si badi bene, avverte l’autore, di evitare un equivoco diffuso: virtualizzazione non è scarto dalla realtà, invenzione di frontiere alternative, ma scavo nella percezione, dilatazione delle potenzialità del reale. Mazzarella insegna Letterature comparate a Roma. E fa giustamente valere la sua competenza trasversale (dal cinema ai video, appunto) e transculturale, senza troppo preoccuparsi di occultare le proprie preferenze. Siamo nei primi anni Ottanta, quando i due «battistrada» Calvino e Kundera provano ad anticipare in due romanzi-chiave della contemporaneità quella che sarà «la flessibilità e contingenza del punto di vista» e la «libertà di movimento» che caratterizzeranno poi il virtuale tecnologico. Si tratta di Palomar (1983) e de L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984). Da una parte ci sono le «peregrinazioni prospettiche» del signor Palomar e il suo «microscopico scrutinio del visibile». Dall’altra la frenetica moltiplicazione di visuali, di incastri e di sovrapposizioni, le storie parallele, le infinite diramazioni dell’«albero delle possibilità» cui obbediscono i personaggi di Kundera. Detto questo, eccoci agli eredi più agguerriti presi in esame da Mazzarella. Si tratta di autori tra loro anche molto difformi per ispirazione e per stile, ma tutti finiscono per flirtare con l’universo dell’immateriale e con i labirinti delle possibilità e delle congetture, con l’idea di narrazione come rete virtuale. In tal senso è persino facile individuare nel capolavoro di Don De Lillo, Underworld, la pietra miliare di questa coraggiosa «scrittura letteraria» che si sottrae alla tirannia antiquata e anacronistica della Letteratura (vedi sopra alla voce «casta»): gigantesca epopea costruita sulle peripezie vissute da una palla di baseball, secondo le connessioni più acrobatiche e più improbabili tra microstorie individuali e storia collettiva. Sono davvero tanti i nomi e i titoli chiamati a raccolta per dimostrare quanto la letteratura sia stata capace non solo si assecondare lo spirito (virtuale) del tempo, ma di promuoverlo mettendo a frutto le risorse del patrimonio espressivo e tutte le strategie tecniche del discorso letterario. Paradossalmente più dei maestri della cyberletteratura come Gibson o Sterling, sono Javier Marias, Martin Amis, Bret Easton Ellis, Ballard, Foster Wallace quelli che formano la compagine più consapevole e la punta di diamante della contemporaneità nell’esaltare, senza feticismi, quel carattere virtuale che è proprio del testo letterario. Seguendo opzioni non omogenee, ovviamente, che posso insistere sulla dimensione del tempo o dello spazio. E su questa strada non mancano gli italiani, come il «nomade» Gianni Celati narratore centrifugo delle «Pianure» o come Pier Vittorio Tondelli, viandante per «città fantasma» e attraverso scenari immateriali quali la Rimini anni Ottanta. Una specie di videogioco la cui «rete dei possibili» si offre nella sua illusionistica apparenza.
Ma è così difficile mettere un indice? I nuovi orizzonti della scrittura, fra tradizione letteraria e innovazione digitale. Ottimo sottotitolo per il libro di Arturo Mazzarella. Ma è possibile che in piena e trionfante rivoluzione digitale, sia così difficile per un editore riuscire a chiudere un saggio (sia pure non scientifico o universitario) con un modesto indice dei nomi? Di quelli che permetterebbero di «navigare» tranquillamente nella pagina scritta come abbiamo imparato a fare con Internet. Di quelli che quando ancora la rivoluzione digitale era di là da venire si faceva di tutto per allestire, sia pure manualmente, a beneficio del lettore? Ciò non vale solo, ovviamente, per Bollati Boringhieri.
Ma è così difficile mettere un indice? I nuovi orizzonti della scrittura, fra tradizione letteraria e innovazione digitale. Ottimo sottotitolo per il libro di Arturo Mazzarella. Ma è possibile che in piena e trionfante rivoluzione digitale, sia così difficile per un editore riuscire a chiudere un saggio (sia pure non scientifico o universitario) con un modesto indice dei nomi? Di quelli che permetterebbero di «navigare» tranquillamente nella pagina scritta come abbiamo imparato a fare con Internet. Di quelli che quando ancora la rivoluzione digitale era di là da venire si faceva di tutto per allestire, sia pure manualmente, a beneficio del lettore? Ciò non vale solo, ovviamente, per Bollati Boringhieri.
«Corriere della Sera» del 16 gennaio 2008
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