La questione di genere e il comma 16 della riforma
di Milena Santerini *
Caro direttore, ci sono molte buone ragioni per non far prevalere ideologie e pregiudizi in campo scolastico a proposito dell’educazione intorno alla sessualità e alla cosiddetta 'identità di genere'. A cominciare dal fatto che la scuola deve essere il luogo dell’alleanza tra insegnanti e famiglie e non un campo di battaglia dove si assiste a forzature, intromissioni indebite o levate di scudi, pagate soprattutto da bambini e ragazzi.
Sono legittime le preoccupazioni dei genitori che hanno visto in questi anni diffondersi progetti e attività "sotterranei" di dubbio valore educativo e forzature ideologiche in nome dell’educazione "di genere".
L’allarme che si diffonde in questi mesi tra le famiglie
assume però talvolta forme esasperate. Si descrive, ad esempio, una deriva da parte del Parlamento e del Governo che non corrisponde alla realtà dei fatti. Spesso non è chiaro cosa si intenda per 'genere' – concetto in sé utile e legittimo – ma si agita, per contrastarla, la versione estremista queer, cioè un approccio che vorrebbe distruggere i codici della differenza sessuale. Un simile panico sociale non giova alla scuola. Non si sta approvando nessuna legge che preveda di importare la cosiddetta 'teoria del gender' nelle aule.
L’approvazione del comma 16 dell’art.1 nella Legge 107 ('Buona scuola') introduce l’educazione alla parità tra i sessi e la prevenzione della violenza alle donne. Si tratta anzitutto di 'educazione' e non di un insegnamento, nel rispetto di una materia tanto delicata che non va certo irrigidita in uno schema disciplinare. Il riferimento è alla Convenzione di Istanbul che mira a prevenire e contrastare violenza e discriminazioni. Non si può negare che l’omofobia o la violenza alle donne costituisca, a volte, un paravento dietro cui si nasconde il cavallo di Troia del 'gender'. Ma è altrettanto onesto dire che una denuncia di queste discriminazioni spesso è mancata, ed è invece a partire dai diritti di tutti che si costruisce credibilmente la difesa di un ordine simbolico originario universale.
Dopo l’epoca di un sesso biologico e anatomico che ha imposto il genere come modellamento di ruoli culturali e sociali, con costrizioni a danno delle donne (sesso debole) e degli omosessuali (femminilizzati, quindi gerarchicamente inferiori) non abbiamo bisogno, al contrario, di un genere che prevale sul sesso, con il conseguente rifiuto del corpo sessuato, della realtà, e soprattutto del giusto senso del limite che la differenza uomodonna porta con sé. Un mondo androgino non è il migliore dei mondi possibile se pensiamo, invece, a una cultura della relazione, del costituirsi come persone nell’alterità e nell’incontro. Ma se non partiremo dall’offesa che millenni di disuguaglianza hanno portato alla dimensione 'femminile' non riusciremo a costruire veramente la dignità delle persone, opponendoci a chi 'decostruisce' la realtà in modo ambiguo.
D’altra parte la psicoanalisi (confermata sempre più dalle ricerche sulle neuroscienze) spiega bene la schematicità e arbitrarietà dell’approccio che estremizza il gender. La differenza uomo-donna è fondatrice, è la matrice dell’identità personale. Tra l’estremo naturalismo (immutabile natura umana) e l’esaltazione del genere psichico (sono ciò che voglio essere) abbiamo da far crescere e educare nuove generazioni libere sia dai determinismi sociali sia dal relativismo arbitrario.
C’è bisogno quindi che le famiglie siano più presenti nelle scuole e non si sottraggano al patto di corresponsabilità da stringere nell’interesse degli studenti. Lo sforzo della politica dovrà essere quello di creare una scuola veramente aperta, dove ai genitori non solo venga chiesto sempre il consenso, ma in cui sia imprescindibile la loro reale partecipazione. Una scuola dove non vengano create nuove materie per parlare della vita, del sesso, e dei sentimenti, ma dove ci siano educatori e educatrici capaci di ascoltare con delicatezza, rispettare l’intimità e il pudore, fermarsi davanti al miracolo delle origini, difendere i giovani dalle trappole di una società trasformista e narcisista, schierarsi fermamente contro ogni (vera) discriminazione.
* Deputata e docente di Pedagogia, Presidente Alleanza contro l’intolleranza e il razzismo del Consiglio d’Europa
Sono legittime le preoccupazioni dei genitori che hanno visto in questi anni diffondersi progetti e attività "sotterranei" di dubbio valore educativo e forzature ideologiche in nome dell’educazione "di genere".
L’allarme che si diffonde in questi mesi tra le famiglie
assume però talvolta forme esasperate. Si descrive, ad esempio, una deriva da parte del Parlamento e del Governo che non corrisponde alla realtà dei fatti. Spesso non è chiaro cosa si intenda per 'genere' – concetto in sé utile e legittimo – ma si agita, per contrastarla, la versione estremista queer, cioè un approccio che vorrebbe distruggere i codici della differenza sessuale. Un simile panico sociale non giova alla scuola. Non si sta approvando nessuna legge che preveda di importare la cosiddetta 'teoria del gender' nelle aule.
L’approvazione del comma 16 dell’art.1 nella Legge 107 ('Buona scuola') introduce l’educazione alla parità tra i sessi e la prevenzione della violenza alle donne. Si tratta anzitutto di 'educazione' e non di un insegnamento, nel rispetto di una materia tanto delicata che non va certo irrigidita in uno schema disciplinare. Il riferimento è alla Convenzione di Istanbul che mira a prevenire e contrastare violenza e discriminazioni. Non si può negare che l’omofobia o la violenza alle donne costituisca, a volte, un paravento dietro cui si nasconde il cavallo di Troia del 'gender'. Ma è altrettanto onesto dire che una denuncia di queste discriminazioni spesso è mancata, ed è invece a partire dai diritti di tutti che si costruisce credibilmente la difesa di un ordine simbolico originario universale.
Dopo l’epoca di un sesso biologico e anatomico che ha imposto il genere come modellamento di ruoli culturali e sociali, con costrizioni a danno delle donne (sesso debole) e degli omosessuali (femminilizzati, quindi gerarchicamente inferiori) non abbiamo bisogno, al contrario, di un genere che prevale sul sesso, con il conseguente rifiuto del corpo sessuato, della realtà, e soprattutto del giusto senso del limite che la differenza uomodonna porta con sé. Un mondo androgino non è il migliore dei mondi possibile se pensiamo, invece, a una cultura della relazione, del costituirsi come persone nell’alterità e nell’incontro. Ma se non partiremo dall’offesa che millenni di disuguaglianza hanno portato alla dimensione 'femminile' non riusciremo a costruire veramente la dignità delle persone, opponendoci a chi 'decostruisce' la realtà in modo ambiguo.
D’altra parte la psicoanalisi (confermata sempre più dalle ricerche sulle neuroscienze) spiega bene la schematicità e arbitrarietà dell’approccio che estremizza il gender. La differenza uomo-donna è fondatrice, è la matrice dell’identità personale. Tra l’estremo naturalismo (immutabile natura umana) e l’esaltazione del genere psichico (sono ciò che voglio essere) abbiamo da far crescere e educare nuove generazioni libere sia dai determinismi sociali sia dal relativismo arbitrario.
C’è bisogno quindi che le famiglie siano più presenti nelle scuole e non si sottraggano al patto di corresponsabilità da stringere nell’interesse degli studenti. Lo sforzo della politica dovrà essere quello di creare una scuola veramente aperta, dove ai genitori non solo venga chiesto sempre il consenso, ma in cui sia imprescindibile la loro reale partecipazione. Una scuola dove non vengano create nuove materie per parlare della vita, del sesso, e dei sentimenti, ma dove ci siano educatori e educatrici capaci di ascoltare con delicatezza, rispettare l’intimità e il pudore, fermarsi davanti al miracolo delle origini, difendere i giovani dalle trappole di una società trasformista e narcisista, schierarsi fermamente contro ogni (vera) discriminazione.
* Deputata e docente di Pedagogia, Presidente Alleanza contro l’intolleranza e il razzismo del Consiglio d’Europa
«Avvenire» del 14 agosto 2015
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