È chiara la data di nascita, 1979, più incerta e sfumata la fine di un pensiero leggero che ha contagiato letteratura, economia, arti. E che forse nella crisi del 2008 ha trovato la sua conclusione. In ogni caso, un movimento dato per morto o moribondo più volte, che sarà ricordato solo per le sue fragili utopie. Lo sostiene CARLO BORDONI su «la Lettura» in edicola da domenica 2 a sabato 8 agosto 2105
di Gilda Policastro
Le date, innanzitutto. Il postmoderno inizia nel ‘79, ma non si sa quando finisce, scrive Bordoni. Di sicuro non in un anno preciso, col countdown, e se di quello si è trattato, allora il megapetardo sarebbe esploso in mondovisione nel settembre 2001, quando l’attentato alle Torri Gemelle s’incaricò di porre fine al cosiddetto sciopero degli eventi, riannettendo la Storia all’accadere. Altro che testualità e simulacri: difficile pensare a un mondo fatto di pagine se ti prende la strizza ogni volta che devi salire in metropolitana, scriveva Romano Luperini ne La fine del postmoderno. Ma quale riabilitazione della storia, gli obiettavano critici e scrittori di altre generazioni (quelle cresciute appunto nella temperie postmodernista), da Scurati a Giglioli, da Aldo Nove a Nicola Lagioia: in realtà l’11 settembre è stato il più grande spettacolo televisivo del nuovo millennio, perciò ulteriore simulacro, dunque ancora postmoderno.
Quando lo si debba far cominciare, poi, è altrettanto arduo assodarlo, tanto più che i movimenti storico-culturali non partono col botto (meno che mai in mondovisione): tra Ceserani e Luperini, ad esempio, che l’autore dell’articolo cita come andassero all’unisono, ci fu un’accesa discussione negli anni Novanta. Se il primo retrodatava il postmoderno al dilagare delle tecnologie e al profilarsi dell’industria culturale di massa, per Luperini persino l’informatizzazione restava nell’alveo dell’unica vera rivoluzione moderna: quella industriale. Ma l’egemonia della Rete non si era ancora pienamente compiuta, niente che avesse toccato le forme di vita dei singoli, comunque, non uscivamo di casa portandoci il mondo appresso in sette centimetri per quattro.
Oggidì è di ipermodernità che si dibatte, di un neomodernismo che è tornato di prepotenza attuale con l’individuo disorientato, gli istituti sociali dissolti, le visioni del mondo ripudiate, senza trascurare le consapevolezze e le contraddizioni del post. Bordoni di letteratura parla pochissimo, eppure è lì che molto (o tutto) avviene. Che resistono i conflitti, che la realtà si rende plastica attraverso la rappresentazione, che i linguaggi diventano emblema, che il contenuto di verità si fa narrazione. Balestrini negli anni Sessanta scrive un romanzo col calcolatore: sperimentalismo, avanguardia, qualcuno dice postmoderno perché il senso si dà a caso, non c’è un messaggio, un’ideologia a priori. Negli anni Zero dello stesso romanzo vengono stampate copie infinitamente riproducibili: il senso è nell’operazione, nel procedimento che delegittima l’interpretazione in sé (ciascuno ha il proprio Tristano).
E allora? Allora forse c’è della complessità e della vischiosità in un fenomeno culturale che le date ante e post quem possono solo aiutare a caratterizzare. Dice: sono finite le grandi narrazioni, poi ti trovi davanti un Pynchon o Wallace e sono mille pagine di atroce godimento, di vite fatte di storie e altre storie ancora, che si moltiplicano, che debordano fino a esplodere (forzatamente fuori dal testo). Dice che è postmoderno citarsi addosso, chiosarsi, postillarsi, lo fa Eco (e sì, quello ce lo ricordiamo), ma lo fanno ancora e di più scrittori che, ritenuti santini o santoni, non si etichettano e che però lo sono un bel po’, postmoderni. Il Pasolini degli anni Settanta, ad esempio, che scrive l’opera sull’opera, facendo delle sue note critiche tramatura del narrato (il suo migliore, tra l’altro). In letteratura rispetto al postmoderno erano più quelli che passavano il tempo a dire no, per carità. Ma se i romanzi di oggi sono pieni di Livie che sorseggiano il caffè, ridateci pure l’ilare nichilismo, grazie, e finanche la disperata vitalità. Il postmoderno pareva essere una contemporanea danza della morte e ne fanno un eterno ballo sul cadavere. Sta di fatto che, in un modo o nell’altro, così, alla fine, se ne muore per forza.
Quando lo si debba far cominciare, poi, è altrettanto arduo assodarlo, tanto più che i movimenti storico-culturali non partono col botto (meno che mai in mondovisione): tra Ceserani e Luperini, ad esempio, che l’autore dell’articolo cita come andassero all’unisono, ci fu un’accesa discussione negli anni Novanta. Se il primo retrodatava il postmoderno al dilagare delle tecnologie e al profilarsi dell’industria culturale di massa, per Luperini persino l’informatizzazione restava nell’alveo dell’unica vera rivoluzione moderna: quella industriale. Ma l’egemonia della Rete non si era ancora pienamente compiuta, niente che avesse toccato le forme di vita dei singoli, comunque, non uscivamo di casa portandoci il mondo appresso in sette centimetri per quattro.
Oggidì è di ipermodernità che si dibatte, di un neomodernismo che è tornato di prepotenza attuale con l’individuo disorientato, gli istituti sociali dissolti, le visioni del mondo ripudiate, senza trascurare le consapevolezze e le contraddizioni del post. Bordoni di letteratura parla pochissimo, eppure è lì che molto (o tutto) avviene. Che resistono i conflitti, che la realtà si rende plastica attraverso la rappresentazione, che i linguaggi diventano emblema, che il contenuto di verità si fa narrazione. Balestrini negli anni Sessanta scrive un romanzo col calcolatore: sperimentalismo, avanguardia, qualcuno dice postmoderno perché il senso si dà a caso, non c’è un messaggio, un’ideologia a priori. Negli anni Zero dello stesso romanzo vengono stampate copie infinitamente riproducibili: il senso è nell’operazione, nel procedimento che delegittima l’interpretazione in sé (ciascuno ha il proprio Tristano).
E allora? Allora forse c’è della complessità e della vischiosità in un fenomeno culturale che le date ante e post quem possono solo aiutare a caratterizzare. Dice: sono finite le grandi narrazioni, poi ti trovi davanti un Pynchon o Wallace e sono mille pagine di atroce godimento, di vite fatte di storie e altre storie ancora, che si moltiplicano, che debordano fino a esplodere (forzatamente fuori dal testo). Dice che è postmoderno citarsi addosso, chiosarsi, postillarsi, lo fa Eco (e sì, quello ce lo ricordiamo), ma lo fanno ancora e di più scrittori che, ritenuti santini o santoni, non si etichettano e che però lo sono un bel po’, postmoderni. Il Pasolini degli anni Settanta, ad esempio, che scrive l’opera sull’opera, facendo delle sue note critiche tramatura del narrato (il suo migliore, tra l’altro). In letteratura rispetto al postmoderno erano più quelli che passavano il tempo a dire no, per carità. Ma se i romanzi di oggi sono pieni di Livie che sorseggiano il caffè, ridateci pure l’ilare nichilismo, grazie, e finanche la disperata vitalità. Il postmoderno pareva essere una contemporanea danza della morte e ne fanno un eterno ballo sul cadavere. Sta di fatto che, in un modo o nell’altro, così, alla fine, se ne muore per forza.
«Corriere della sera» del 3 agosto 2015
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