La sentenza della Corte di Strasburgo
di Francesco Ognibene
La vita umana non è un oggetto. È talmente facile a constatarsi che è capace di osservarlo anche un bambino. Anzi, uno sguardo privo delle complicazioni adulte – filosofiche o giuridiche – riconosce a prima vista quel che un essere umano è, sin da quando inizia a pulsare in lui la vita. E rifiuta d’istinto ogni contraffazione che induca a dire qualcosa di diverso da quanto l’esperienza detta ai sensi e all’intelletto.
La realtà s’impone a chi non ha scelto di voltare la testa dall’altra parte. Ma non sempre riesce a spuntarla quando s’intromettono talune sofisticate costruzioni di legge, non più scudo del più fragile ma strumento di sopraffazione, che sotto la tutela di argomenti nobili (autodeterminazione, libertà, diritti individuali) depistano l’osservazione dei fatti fino a rovesciarne la stessa percezione. E a depredare la persona della sua dignità nativa volgendola in una cosa consegnata nelle mani del più astuto.
Ma una vita umana resta sempre un dato di fatto delicato e insieme potente che oltrepassa la materia, collocandosi in una categoria da sottrarre alle regole della produzione, del mercato, della proprietà. È vita, e basta. E non può essere generata per assoggettarla alla disponibilità altrui. Che la cultura oggi prevalente discuta alla radice questo assunto fino a stravolgerlo è il segno di quanta strada spetti a noi tutti compiere a ritroso – e attrezzare ex novo, come una via alpina lasciata sgretolare – per recuperare la decisiva consapevolezza di chi siamo.
Probabilmente la Corte europea dei diritti dell’uomo non s’è posta il problema sino a questo livello quando ieri – contro molti pronostici, visti alcuni precedenti su grandi nodi etici, ma in coerenza profonda col diritto fondamentale che vuol affermare e far crescere – ha sentenziato che l’embrione umano creato in laboratorio e parcheggiato nel congelatore non può essere utilizzato per altri fini che non siano quelli per i quali è stato concepito: svilupparsi, nascere, diventare un figlio.
Ma anche se la giurisprudenza dei giudici del Consiglio d’Europa conosce pronunciamenti altalenanti, come più volte abbiamo documentato, ieri la Corte di Strasburgo ha scritto una pagina decisiva per sottrarre la vita umana agli artigli dell’industria che la vorrebbe disponibile e passiva come una cavia, e anche più di essa, vista la diffusa ostilità verso il ricorso agli animali per test su farmaci e terapie.
Il passaggio era complesso: a chiedere che si consentisse l’uso di embrioni a scopo di ricerca era infatti una donna italiana che – privata del compagno ucciso nel sanguinoso attentato di Nasiriyah del 2003 – reclamava il diritto di fare dei "propri embrioni" quel che voleva, nel nome del diritto alla proprietà e alla vita familiare. Un caso che nasce da un evento traumatico, ma che strada facendo è diventato una delle tante bandiere per affermare un principio controverso come quello dell’insindacabile libertà della ricerca, che usando embrioni umani (pur congelati da oltre dieci anni e dunque praticamente inservibili) vorrebbe sancire la propria superiorità rispetto a qualunque criterio etico.
Un’affermazione non condivisa nella stessa comunità scientifica, che si sta seriamente interrogando sull’opportunità di rinunciare a ogni (orripilante) forma di manipolazione della vita umana nel suo sorgere. Mentre i laboratori ricorrono sempre più massicciamente alle cellule staminali adulte e a quelle riprogrammate, le sole che abbiano offerto – e per di più in modo eticamente sostenibile – concrete speranze di ottenere cure efficaci per malattie sinora inguaribili, la Corte europea ha stabilito che il bando italiano alla riduzione dell’embrione a "materiale biologico da laboratorio" contenuto nella legge 40 è «necessario in una società democratica» dove la questione è ampiamente dibattuta, fa parte dell’«ampio margine di apprezzamento» che spetta a ogni Paese, e non consente che si tratti la vita alla stregua di un oggetto di proprietà, nemmeno fosse una casa o un’automobile, e anzi con meno tutele per la sua integrità.
E a chi si appella a Governo, Parlamento e Corte Costituzionale agitando lo stucchevole spettro dei ricorsi in tribunale ricorda indirettamente che le stesse sentenze europee presentate al pari di un dogma inappellabile quando accolgono le ragioni della neutralità etica non possono essere considerate come un’opinione insignificante se rigettano con nettezza una smaccata pretesa di cosificare la vita umana. Il giusto diritto va onorato restituendo la legge alla sua missione: riconoscere la vita umana con la stessa immediatezza dei bambini, e tutelarla con cura. L’Europa, stavolta, ha saputo ricordare a se stessa che questa è la via.
La realtà s’impone a chi non ha scelto di voltare la testa dall’altra parte. Ma non sempre riesce a spuntarla quando s’intromettono talune sofisticate costruzioni di legge, non più scudo del più fragile ma strumento di sopraffazione, che sotto la tutela di argomenti nobili (autodeterminazione, libertà, diritti individuali) depistano l’osservazione dei fatti fino a rovesciarne la stessa percezione. E a depredare la persona della sua dignità nativa volgendola in una cosa consegnata nelle mani del più astuto.
Ma una vita umana resta sempre un dato di fatto delicato e insieme potente che oltrepassa la materia, collocandosi in una categoria da sottrarre alle regole della produzione, del mercato, della proprietà. È vita, e basta. E non può essere generata per assoggettarla alla disponibilità altrui. Che la cultura oggi prevalente discuta alla radice questo assunto fino a stravolgerlo è il segno di quanta strada spetti a noi tutti compiere a ritroso – e attrezzare ex novo, come una via alpina lasciata sgretolare – per recuperare la decisiva consapevolezza di chi siamo.
Probabilmente la Corte europea dei diritti dell’uomo non s’è posta il problema sino a questo livello quando ieri – contro molti pronostici, visti alcuni precedenti su grandi nodi etici, ma in coerenza profonda col diritto fondamentale che vuol affermare e far crescere – ha sentenziato che l’embrione umano creato in laboratorio e parcheggiato nel congelatore non può essere utilizzato per altri fini che non siano quelli per i quali è stato concepito: svilupparsi, nascere, diventare un figlio.
Ma anche se la giurisprudenza dei giudici del Consiglio d’Europa conosce pronunciamenti altalenanti, come più volte abbiamo documentato, ieri la Corte di Strasburgo ha scritto una pagina decisiva per sottrarre la vita umana agli artigli dell’industria che la vorrebbe disponibile e passiva come una cavia, e anche più di essa, vista la diffusa ostilità verso il ricorso agli animali per test su farmaci e terapie.
Il passaggio era complesso: a chiedere che si consentisse l’uso di embrioni a scopo di ricerca era infatti una donna italiana che – privata del compagno ucciso nel sanguinoso attentato di Nasiriyah del 2003 – reclamava il diritto di fare dei "propri embrioni" quel che voleva, nel nome del diritto alla proprietà e alla vita familiare. Un caso che nasce da un evento traumatico, ma che strada facendo è diventato una delle tante bandiere per affermare un principio controverso come quello dell’insindacabile libertà della ricerca, che usando embrioni umani (pur congelati da oltre dieci anni e dunque praticamente inservibili) vorrebbe sancire la propria superiorità rispetto a qualunque criterio etico.
Un’affermazione non condivisa nella stessa comunità scientifica, che si sta seriamente interrogando sull’opportunità di rinunciare a ogni (orripilante) forma di manipolazione della vita umana nel suo sorgere. Mentre i laboratori ricorrono sempre più massicciamente alle cellule staminali adulte e a quelle riprogrammate, le sole che abbiano offerto – e per di più in modo eticamente sostenibile – concrete speranze di ottenere cure efficaci per malattie sinora inguaribili, la Corte europea ha stabilito che il bando italiano alla riduzione dell’embrione a "materiale biologico da laboratorio" contenuto nella legge 40 è «necessario in una società democratica» dove la questione è ampiamente dibattuta, fa parte dell’«ampio margine di apprezzamento» che spetta a ogni Paese, e non consente che si tratti la vita alla stregua di un oggetto di proprietà, nemmeno fosse una casa o un’automobile, e anzi con meno tutele per la sua integrità.
E a chi si appella a Governo, Parlamento e Corte Costituzionale agitando lo stucchevole spettro dei ricorsi in tribunale ricorda indirettamente che le stesse sentenze europee presentate al pari di un dogma inappellabile quando accolgono le ragioni della neutralità etica non possono essere considerate come un’opinione insignificante se rigettano con nettezza una smaccata pretesa di cosificare la vita umana. Il giusto diritto va onorato restituendo la legge alla sua missione: riconoscere la vita umana con la stessa immediatezza dei bambini, e tutelarla con cura. L’Europa, stavolta, ha saputo ricordare a se stessa che questa è la via.
«Avvenire» del 28 agosto 2015
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