La morte che Lizzani si è dato: il vero nodo
di Alessandro Zaccuri
Parliamo sempre di vita, quando parliamo di morte. Il problema non è l’ultimo istante (un respiro che si spezza, un salto nel vuoto), ma l’innumerevole serie di istanti che lo precedono. Solo la paziente costruzione dei giorni riesce ad attribuire un senso all’ultimo giorno, in cui tutto sembra andare perduto. Allo stesso modo, non si può ragionare di morte se prima non ci si capisce sulla vita. È una questione non più rimandabile, anche dal punto di vista della convivenza civile, perché è una questione di democrazia e la democrazia è anche l’arte di venire incontro al più debole, all’inerme. Come la malattia, e spesso insieme con essa, la vecchiaia è una di queste condizioni estreme, al cospetto delle quali ci si gioca tutto. Coraggio, bellezza, fantasia: ognuno compili il suo elenco di virtù. Quel che conta è sapere che verrà un momento in cui si sarà messi alla prova e bisognerà dimostrare – a se stessi, anzitutto – che non si sta spacciando moneta falsa. Che quelle virtù, insomma, sono autentiche, sono per sempre. Non sono buone solo per i luminosi pomeriggi d’estate, ma anche per le fredde notti d’inverno.
Il guaio è che la vecchiaia, oggi, fa paura, imbarazza, ripugna, tant’è vero che si cerca continuamente di camuffarla sotto una coltre di eufemismi. Il guaio ulteriore, e supremo, è che anche i vecchi ormai non sopportano più la vecchiaia. Non tutti, d’accordo, però basta una notizia terribile come quella di cui si discute in queste ore per risvegliare un’ondata di insofferenza. Non verso la morte, invocata anzi come soluzione, ma verso la vita. Meglio, verso quella particolare forma – fragilissima e misteriosa – che la vita assume con l’avanzare dell’età. Il regista Carlo Lizzani se n’è andato all’età di 91 anni, lo sappiamo. Ha "staccato la chiave", per usare l’espressione del suo biglietto d’addio. E allora eccoci qui, ancora una volta, a discutere sul diritto alla morte e sulle relative "prestazioni" che lo Stato sarebbe obbligato a erogare per non privare di questo presunto diritto nessuno dei suoi cittadini. Con il dovuto rispetto per tutti, ma l’impressione è che in circostanze come questa si preferisca invocare la norma per evitare il confronto sui valori, e che si fabbrichi una nuova ideologia per sfuggire al rapporto con la realtà.
Non è, per essere chiari fino in fondo, una questione di fede, quanto piuttosto di mera, nuda umanità. Una questione di fede nell’uomo, se si preferisce, ma nell’uomo tutto intero, comprese le sue molte debolezze. Forse invecchiare sarebbe più facile, se non si fosse immersi nella convinzione che solo la giovinezza – non importa se artificiale e illusoria – vale la pena di essere vissuta. Non si pretenderebbe il diritto alla morte, se ci si ricordasse più spesso di essere mortali. Non ci si vergognerebbe della propria vecchiaia, se si imparasse a riconoscere qualcosa di sé (qualcosa di umano, e cioè di comune e condiviso) nei vecchi che via via abbiamo incontrato. Non è un cammino facile e proprio per questo è esistita una lunga tradizione di meditazioni sulla senilità e di riflessioni che invitavano ad "apparecchiarsi" alla morte.
Vero è che, su questo, gli artisti sono sempre stati scettici. L’inglese Mervyn Peake, per esempio, ci ha lasciato una magnifica manciata di versi, nei quali sostiene che nessun uomo è mai a suo agio con «le cose più grandi». «Per morire non c’è maestro – scriveva – e per nascere neppure». Erano parole dettate dalla baldanza della maturità. Peake morì nel 1968, a soli 57 anni, consumato da un parkinsonismo precoce e inarrestabile. A fianco c’era la moglie, i figli erano con lui. Magari aveva ragione, quando sosteneva che non si impara mai ad amare. Si può imparare, però, a essere amati. Anche in vecchiaia, anche nella malattia.
Il guaio è che la vecchiaia, oggi, fa paura, imbarazza, ripugna, tant’è vero che si cerca continuamente di camuffarla sotto una coltre di eufemismi. Il guaio ulteriore, e supremo, è che anche i vecchi ormai non sopportano più la vecchiaia. Non tutti, d’accordo, però basta una notizia terribile come quella di cui si discute in queste ore per risvegliare un’ondata di insofferenza. Non verso la morte, invocata anzi come soluzione, ma verso la vita. Meglio, verso quella particolare forma – fragilissima e misteriosa – che la vita assume con l’avanzare dell’età. Il regista Carlo Lizzani se n’è andato all’età di 91 anni, lo sappiamo. Ha "staccato la chiave", per usare l’espressione del suo biglietto d’addio. E allora eccoci qui, ancora una volta, a discutere sul diritto alla morte e sulle relative "prestazioni" che lo Stato sarebbe obbligato a erogare per non privare di questo presunto diritto nessuno dei suoi cittadini. Con il dovuto rispetto per tutti, ma l’impressione è che in circostanze come questa si preferisca invocare la norma per evitare il confronto sui valori, e che si fabbrichi una nuova ideologia per sfuggire al rapporto con la realtà.
Non è, per essere chiari fino in fondo, una questione di fede, quanto piuttosto di mera, nuda umanità. Una questione di fede nell’uomo, se si preferisce, ma nell’uomo tutto intero, comprese le sue molte debolezze. Forse invecchiare sarebbe più facile, se non si fosse immersi nella convinzione che solo la giovinezza – non importa se artificiale e illusoria – vale la pena di essere vissuta. Non si pretenderebbe il diritto alla morte, se ci si ricordasse più spesso di essere mortali. Non ci si vergognerebbe della propria vecchiaia, se si imparasse a riconoscere qualcosa di sé (qualcosa di umano, e cioè di comune e condiviso) nei vecchi che via via abbiamo incontrato. Non è un cammino facile e proprio per questo è esistita una lunga tradizione di meditazioni sulla senilità e di riflessioni che invitavano ad "apparecchiarsi" alla morte.
Vero è che, su questo, gli artisti sono sempre stati scettici. L’inglese Mervyn Peake, per esempio, ci ha lasciato una magnifica manciata di versi, nei quali sostiene che nessun uomo è mai a suo agio con «le cose più grandi». «Per morire non c’è maestro – scriveva – e per nascere neppure». Erano parole dettate dalla baldanza della maturità. Peake morì nel 1968, a soli 57 anni, consumato da un parkinsonismo precoce e inarrestabile. A fianco c’era la moglie, i figli erano con lui. Magari aveva ragione, quando sosteneva che non si impara mai ad amare. Si può imparare, però, a essere amati. Anche in vecchiaia, anche nella malattia.
«Avvenire» dell'8 ottobre 2013
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